PLEASE DON’T TELL #1

FEDERICA FIUMELLI

Istruzioni per l’uso: Scegliete un manuale o un libro di storia dell’arte, lasciatelo cadere su un piano. Esso si aprirà come fato vuole. Osservate l’immagine. Ecco ora sedetevi e iniziate a immaginare quello che osservate. Preferibilmente da consumarsi con un drink ghiacciato.


Ritratto dei Coniugi Arnolfini, Jan van Eyck (dettagli)
Ritratto dei Coniugi Arnolfini, Jan van Eyck (dettagli)

Per favore non ditelo in giro. Diamine. Capita a tutti di avere un segreto no?

Siamo sempre costipati (pieni in senso negativo, assuefatti) di nozioni, citazioni, spiegazioni. Che noia. Ogni tanto manchiamo di immaginazione. Insomma sì, voglio dire osservare dopo tutto è un gioco, no? Un pò più lontani dall’accademismo, dalla tradizione.

Siamo caduti nella zona grigia del fantasticare, del cazzeggiare (mi si perdoni il francesismo) su un’immagine. 

Leggerla come si vuole. Lasciarsi sedurre dai propri pensieri.

Già. Ma da che immagine partire? Che sia il fato allora. 

Spariamo un’immagine. Giochiamo alla roulette russa. Avete presente quel film che ha per protagonista Robert De Niro, “Il Cacciatore”? Un gioiellino da far saltare i nervi oltre che il cervello.

SPAAM. Siamo ancora salvi. Ma apro gli occhi e ci troviamo davanti ai coniugi Arnolfini. Proprio loro. Una delle coppie più viste e riviste, noti ancora prima degli influencer. Non so quante volte da bambina ho fantasticato sull’androginia di porcellana cristallizzata nell’impassibilità di quei volti.

Così belli da destare invidia e spavento, quasi si vorrebbe essere amati da entrambi.

Volti mai turbati dallo scorrere del tempo. Da far rabbrividire Tilda Swinton o i manichini fotografati da Eugène Atget. Ma qui non c’è il bianco e nero, qua siamo sopraffatti dai colori puri, fiamminghi. Voglio dire, su quel verde del capo assai prezioso della dama potremmo tranquillamente stenderci e sentirne tutto l’odore e il tepore. Potremmo morirci con gloria su quel lembo di tessuto, con onore e rigore, attenti al dettaglio come i fiamminghi sanno fare. La loro è una dannata ossessione per il meticoloso, l’infinitesimale. Lo specchio sullo sfondo vale un orgasmo a Hollywood. Lì c’è tutta la perfezione, l’illusione, il riflesso della pittura. E’ un magico inganno, ma noi guardiamo, voyeuristi fino al midollo, spietatamente coscienti del trucco. 

Potremmo caderci dentro. Mind the gap. Ma non siamo in una sporca stazione metropolitana mitteleuropea a scattare foto ai passanti cercando qualche hashtag per ammazzare la noia dei trasporti pubblici. Siamo in un quattrocento legnoso nella Fiandre. Ne sentiamo l’odore. No non quello nauseabondo del piscio in metro, concentratevi lì sui peli di quel cagnolino che ci osserva tra il sadismo e la vanità.

Mentre cadiamo in un vortice riflettente continuiamo a perderci tra tessuti che vivono e posseggono lo spazio assieme a quei timidi frutti nascosti e impertinenti che si svelano nella loro peccaminosa rotondità arancione. O vogliamo parlare della forma aguzza di quelle calzature? Converrete con me nel sentirne l’intaglio, la preziosità, l’unicità – quasi pronti ad essere indossati, vorremmo danzare come Loïe Fuller attorno alla stasi eretica di quei due coniugi, far brillare di vibrazioni quei colori sedimentati, ancorati alle fibre tessili. Vogliamo spettinare l’ordine.

E poi l’erotismo cortese di quelle due mani congiunte, quante reverenza, gestuale, una mimesi simbolica così carica di pathos e affetto. Un pathos a effetto. Su quei palmi di burro potremmo scioglierci appena prima di un’Apocalisse. Sono congelate al tocco, come il marmo di una Chiesa.

Poi l’Apocalisse di dettagli che ci stravolge inermi: il capello nero, la veletta, la cintura, l’azzurro delle maniche, i bordi di pelliccia, il cane dall’umanità conturbante, i pennacchi, il lampadario scolpito nella luce, le pieghe del vestito che irradiano quella maternità protetta, sacrale. E’ un sole raccolto quello che scherma l’altra mano delicata e libera della dama. Quasi ricordano gli scenografici raggi gloriosi dell’Estasi della Santa Teresa del Bernini.E’ tripudio, Barocco, ecco il dolce vizio dell’intaglio del dettaglio. Un inno silenzioso contro la profanazione che deriva dall’essere approssimativo.

Qui tutto esiste nella congiunzione con il reale, la pittura si fa ghiaccio bollente, un ossimoro perfetto quasi troppo mainstream, da mandare giù con un sorso di vodka liscia. Questa pittura pulisce, ripulisce l’immaginazione ogni volta che fantastichiamo su quei frutti timorosi di perire. Dettagli con il pelo sullo stomaco, ma eleganti, impeccabili, imperdonabili. Se ne diventa dipendenti. Ma non ditelo in giro. È un segreto.