ALESSIO MOITRE
Puoi aver fabbricato un’opera di grande potenziale ma senza l’adeguata comunicazione rimane un manufatto effimero. Di conseguenza ti levigherai i polpastrelli sui tasti di un computer e urterai l’orecchio con telefonate ripetute ed un passaparola tantrico nei riguardi dei conoscenti. In verità, per la buona riuscita della pratica, solo un elemento è imprescindibile: l’ottenimento di una o più fotografie d’alto livello del lavoro. E sin troppo conseguente l’assunto che vorrebbe fortunati i fotografi, in particolar modo gli specialisti nel settore artistico. Ritrovatisi in un’epoca dorata dove li si rincorre per le loro competenze. Ma l’avviamento ricevuto all’arte contemporanea, mi ha estradato al pensiero che ogni evidenza è la falla del ragionamento. E il busillis (o problema spinoso) è nella mancanza di rischio, estinta dalle moderne macchine digitali ed avvalorata dal professionista (o amatore improvvisato). “Trovare un fotografo intelligente ormai è impossibile, sono spariti”. Durante una cena, rimandata semestralmente e a finestre spalancate dopo un piovasco da goccia pesante, l’artista di lunga navigazione introduce il discorso: ”l’opera non la interpretano più, fanno scatti, mettono luci, gli devi dire sempre cosa devono fare, si accontentano”. Ormai sono a cavallo del pensiero. Da cavallerizzo dovrei domarlo ma essendo un curioso genetico lascio le briglie. Mi cita pochi nomi, avanti con gli anni o quantomeno da più di mezza età. Non pervenute le nuove leve. Ma la scusante è nell’anagrafica del parlante. “E poi basta scattare”. Nel bianco, infiocchetto. “E neon”, rifinisce la controparte. In coda si è stereotipo quasi in favella. Avrei potuto accantonare la chiacchiera se non fosse che s’inseriva in un girone di confronti avviatosi simultaneamente da differenti direzioni. Una manciata di giorni prima il rumore della rediviva fiera fotografica di giugno The Phair, aveva accalorato gli animi. Interessi commerciali e un moggio di sterile abitudine. Ma così detta potrebbe essere una buona parte della vita. Nell’arte però è l’insorgere di altre ciarle. Sarebbe stato costruttivo domandarsi come il mezzo si fosse adattato ai ciclonici tempi che attraversiamo ma seduto in compagnia di un collega, al baruccio dai minimi tavolini, si sbraca volenterosi. “Non ne faccio molta di fotografia negli ultimi anni, perciò la fiera al massimo me la vedo”. Da uditore attendo che sorseggi il caffè. In realtà lo ingolla, ancora a temperatura caldera. “Una volta mi ci mettevo, adesso è tutta fotografia accomodata, ed anche accomodante. Ero affezionato ai lavori sociali, agli scatti di guerra, alle folle anche. Non riesco proprio ad accettare una fotografia innocua. Alcuna non è nemmeno di design. Un copri macchie da muro”. Sa il fatto suo, lo so bene, non ribatto. Lavora nel settore da decenni. “L’anno scorso, appena ho potuto, ho fatto una performance in galleria. L’artista aveva un fotografo di fiducia. Appena abbiamo finito mi ha proposto alcuni scatti per ingrandirli. Credimi, sono rimasto impietrito”. Secondo caffè. Lui rilancia ma io mi accosto al dec, macchiato, un po’ di zucchero. Un altro po’ di zucchero va. “Sfocate, mal fatte, tutte da una prospettiva lunga, come se fosse nelle ultime file di un teatro. Non ho detto nulla, ho preso tempo. Mi sono domandato chi davvero riuscisse a vendere certe cose. Ed era di fiducia, pensa se avessi avanzato la candidatura di qualche mio conoscente. Non oso immaginare se fossero venute fuori così”. Il fotografo, mi puntualizzò, non l’aveva mai veduto prima e stando il risultato, non sarebbe nemmeno più successo in seguito. Aveva mancato il bersaglio, puntualizzò. Eppure con le digitali pare impresa irrealizzabile. L’errore è stato classificato come menoma percentuale. Le immagini che mi giungono quotidianamente testimoniano di una ricercatezza insondabile prima dell’avvento della nuova era ed anche della trappola che si mimetizza alla perfezione nelle nostre dinamiche visive. Un buon scatto può salvare un esposizione. Un lavoro d’illuminazione puntigliosa rappresentare una vendita o l’elevazione di uno spazio. Oltre al titolo sempre più brendizzato, è l’immagine a fungere da passepartout, come adulatrice ricopiata da un subisso di scorci similari. Lo sappiamo, in illusione. Nella quotidianità rarissimi denotano controllo degli istinti, mettendoli a tacere previa soppesazione contenutistica di una mostra. Un certo candore ed una pregevole lavorazione di un immagine, bastano per allocchirci. Una pulizia nitida e quasi castica in aperto conflitto con la promiscuità sensoriale che sperimentiamo, ci acquietano, rendendoci anche inadatti in presenza dell’evento, sussurrando appena. Quella ritrosia al rumore è la stessa richiesta allo scatto fotografico di un oggetto d’arte. L’asetticità quasi aerospaziale dell’involucro infonde sacertà. La nostra chiesa è a sollevazione d’istinti. E ad ammirazione. Insano per un fotografo sarebbe discostarsene, ritrovandosi contaminato da un’impurezza che può essere anche ragguagliata come imprecisione. Nella pulizia del dettaglio sempre più infinitesimale si va a sterminare l’imperfezione umana, resa ancor più abbietta da un occhio limitato. Il difetto, spesso per colpa di naturale disattenzione o imprevedibile resa della fotografia, rende maturo un manufatto. Il restauro ha il compito d’intervenire per la conservazione e tutela del bene. I nostri meccanismi di evirazione del tempo e del macroscopico errore invece, ci incutono timore. Che è lo stesso sentimento richiesto al fine di preservare l’elitarietà di certo articolo. Il collezionista, sovente ma ancora con un margine di casi d’eccezione, acquista insomma un’opera inesistente. Un ideale rifinito, insterilito delle rughe. La fotografia lavorata, rispettosa dei canoni, riequilibra lo sbilanciamento umano del nostro, che se ne avvarrà per alimentare la sua estetica sottovuoto. La polvere, custode delle case, i graffi di una cornice, gli aloni, i bolli impercettibili, le aggiustate opportunistiche dell’artista per migliorare un’opera, le misure inevase al millimetro, riappariranno al momento della sistemazione nel luogo deputato. È un magheggio di breve durata. In questa temperie, il lavoro del fotografo d’arte assume il carattere della dannazione, zelante nel dover maledire altri con il proprio sortilegio. È quello che gli si comanda. L’iniziativa e l’interpretazione della posizione migliore per la resa di un lavoro, non sono credenziali accattivanti, dunque del tutto pleonastico appellarsi all’intellettualità del professionista. Esentato, si riveste da esecutore. Non sono mai stato un venditore di neutralità, concetto che riaffiora a polla dal terreno artistico attuale. Un’opera non lo dovrebbe (o potrebbe) esser mai ma la sua estetica sovente ne tradisce l’intento di asetticità. La fotografia, suo malgrado, è un’arma capitale di allineamento. Mellifluo da parte mia sarebbe riecheggiarne le aspirazioni. La richiesta del pubblico è però altra, trascinata da una mancanza di personalità che non viene solo intercettata ma incoraggiata al fine di stemperarne le diversità. Uno scatto ben riuscito, a fine promozionale, è dove all’artista serve per comunicare. Splendide opere sono state vendute senza che buona parte di esse si svelasse. Sfruttando la particolarità. Concentrandosi sulla condivisione empatica indiretta. Concetti quasi da omeopatia oramai. Ma non cessati. Le sporcature di uno scatto non impostato invocano approfondimento, da utilizzare in uno studio, magari. Uno dei tanti che frequentò un conoscente, una mesata circa addietro. Incuriosito da una pittura di una giovane artista. Lo rincontrai dopo il paventato appuntamento: “pensavo fosse bravina. Invece aveva solo un ottimo fotografo”. Frega anche i migliori, lo confortai. Prima di appurare che aveva ragione. Una tela accattivante svettava su un pavimento grisaglia. Un neon invisibile faceva il resto. Camera centrale. Splendida. Ancora una volta.