IN TEMPI DI RIDEFINIZIONE DEL MONDO

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ALESSIO MOITRE

Veniamo da anni in cui abbiamo sgobbato nel consolidare e controllare le immaginarie mura difensive del mondo cosiddetto occidentale. L’abbiamo fatto dandoci di ronda, impedendo, se necessario, l’ingresso a soggetti non allineati per le più svariate ragioni. Che sia stato un provvedimento sociale avanzato dalla politica, è sulla carta stampata. Questo ha di certo alleggerito il carico privato da sopportare, smarcando fette della civiltà dal doversi spendere in prima persona. Abbiamo avuto così tempo di esercitare la dialettica, confrontandoci sulle principali questioni che accompagnano la nostra società, velicando la storia che non si era mai così ringalluzzita come in questi ultimi tempi (dopotutto, citando Sartre: “il passato è un lusso da proprietari”). Di certo la base di partenza è il mondo, per svariati secoli appannaggio delle navi, eserciti, pensatori, avventurieri, scriteriati, illusi, conquistatori, imperialisti europei. C’è lo ricordiamo sovente. Sappiamo che in mezzo alle minugie un poco di sangue orgoglioso ci è rimasto. Di certo non lo esibiamo, non è più costume, tantomeno il caso di apparire simpatizzanti di epoche tragiche per i più a vantaggio dei meno. Ma non riusciamo a lasciare in pace una voglia democratica di confronto. Ad ascoltare illustri pensatori, uno degli ultimi Gustavo Zagrebelsky, questa pratica sociale stentacchia a vantaggio di un impostazione maggiormente autoritaria. Se non vogliamo dare credito ad Aristotele che rintracciava nella democrazia una forma di stato utile in tempo di pace (solo? Non mi ricordo), dobbiamo anche esser onesti nell’affermare che una certa forma di guerra (per procura, indiretta, interessata, cesellate il termine che vorrete) c’interessa, da mesi, direttamente e che il forziere delle qualità umanistiche, ne è stato interessato e alle volte rinnegato a seconda dei tempi del conflitto. Eventi d’arte non hanno solo dovuto riprogettare ambienti ma si sono ritrovati a contatto con fascinazioni novecentesche ed umane e argomentazioni che il fiacco salotto borghese approntato nelle domeniche, non aveva più in cartellone da imprecisate stagioni. Se c’eravamo ormai flagellati con i torti del colonialismo e dell’imperialismo, assecondando restituzioni o parlamentando su opere di valore universale (i fregi e i marmi del Partenone e la loro trattativa scaturita dall’accettazione della Gran Bretagna a discuterne con lo stato greco, sarà di sicuro gustosa), non eravamo adeguatamente equipaggiati per affrontare una tempesta improvvisa di tali dimensioni. E dopotutto, se dovessimo dare peso al libro di Rampini, “Suicidio Occidentale”, l’autodistruzione delle nostre fondamenta ha preso l’abbrivio da qualche tempo. Ma all’arte, di tutto ciò, che cosa importerebbe? Oltre ai danni citati sul piano organizzativo e salottiero (salottifero perfino), di altro, in cosa incapperebbe? La novità non potrebbe essere la sua marginalizzazione. È faccenda nota, argomentata talmente in profondità, da instupidirci. La ridefinizione sul piano strategico delle potenze mondiali non intaccherà il mercato dell’arte. Lo potrà indebolire ma non costringerlo a fuoriuscire da quello statunitense e cinese, i due principali al mondo, i due che garantiscono la salute dell’intero comparto. Peggio ancora, andando nel dettaglio, come potrebbe mai influenzarne l’operare d’un artista di chiaro stampo occidentale, alle prese con il suo talento e la sua carriera? L’arte è, per sua attuale produzione, un monolite, a sufficienza liscio da non poterne nemmeno sospettare le sbrecciature possibili e inspessito da una certa vanità che nemmeno “l’elogio” che ne fece Giuseppe Berto a tale qualità negli anni sessanta, potrebbe adulterarne la materia. Eppure sarebbe ingiusto sostenere che l’arte abbia perso l’uso della ragione e che la volontà gli sia venuta meno. Interessante in tale direzione è l’accapigliarsi sulla nuova Documenta, che ha prodotto una messe già intrigante di contributi. I Ruangrupa, gruppo curatoriale a capo della manifestazione tedesca, sono già un’anomalia, per resa dell’operazione e per impatto solo parzialmente celato dalla progettazione. In alcuni commenti giornalistici, i risultati sono resi alla pari delle raffigurazioni giapponesi dei “barbari del sud”, i celeberrimi e affascinatissimissimi Nanbanjin, rappresentanti soprattutto coloni portoghesi del 1500 nella terra del Sol Levante, con modi, vestiario e fattezze ispirevoli. Questi curatori oceanici non son giunti per diletto nostro ma, anche senza aver ancora potuto constatare di persona, mi par di comprendere che forniscano al mondo un tipo di partecipazione sociale dell’arte perfino di stampo civile. Proprio su tale questione si va sovente a battere nelle puntualizzazione degli esperti. Come già annotato, un impegno per nulla impigrito, non è di competenza italiana ed è assolutamente comprensibile che svariati giornalisti siano addirittura schifati dal risultato. Non è per niente consono dover ammettere che in tempi di ribilanciamento globale, una branchia sbalzata fuori dell’interesse nostrano, venga investita dalla grade tempesta della storia e che la visione accentrante sull’Europa, non sia sempre d’interesse globale. Come è giusto, dopotutto, come i fatti stanno dimostrando nella geopolitica. Per sminare il campo dai rischi, servirebbe proprio ciò, un rischio, un azzardo, che si fondasse sulla genetica creativa del nostro paese. Sono cosciente che si potrebbe gettare capitali in strutturazioni accademiche all’avanguardia, magari proponendole in salsa italiana, facendo il filo a dettati simili, di logico stampo estero. Eppure rimango stordito, nonché affascinato come qualsiasi invidioso in fronte ad un risultato sperato, dal progetto della Scuola di Santa Rosa di Firenze, accadimento per merito di Francesco Lauretta e Luigi Presicce. Perché la facilità con cui sia stata battezzata come eversiva e stramba, una noncurante libera iniziativa di pittura di gruppo, una volta alla settimana, seduti ad un bar lungarno, ti disarma. È avvenuto facendo intendere che ci fosse una sedia libera per altri e poi altri e che altri ancora potessero prendere parte ad un riposizionamento dell’insegnamento e dell’implementazione del talento. Non c’è in ogni dettaglio di una tale proposizione una fisca di programmazione. Ed è allarmante, come se davanti ad un gigante in corsa, ci si approcciasse sorridendogli. Si può senza fatica dare dell’antistorico a loro e a chi scrive ma ritengo che ormai l’arte non possa più darsi per certa regole e caratteri peculiari. Sarebbe liberatorio riprendere i nodi della nostra unica corda, citando maldestramente Jalal al-Din Rumi e poterne anche fare di nuovi, magari utilizzando mani inesperte. Sono considerazioni utopistiche, mal generate da uno spirito che forse ha intravisto in esperimenti come quelli fiorentini, una ridemocratizzazione delle arti visuali, composta perlopiù dalla noncuranza dei risultati che si potrebbero ottenere. Sperimentazione è una parola che avanziamo sovente come stemma. Forse se vogliamo dare seguito alle promesse della cultura occidentale, dovremmo lanciarci in azzardi, generando dei nostri eroici furori composti da una stazzonata normalità e da una condivisione di sentimenti. Banale gergo scautistico da far roteare le palpebre. Eppure…