MATTIA FERRETTI X FEDERICO PALUMBO
Quello che leggerete a breve è il risultato di diversi confronti, più o meno serrati, portati avanti da me e da Mattia Ferretti.
Ci siamo incontrati da Osservatorio Futura un po’ di tempo fa e lì, senza assecondare troppo alcun tipo di discorso più o meno preciso, abbiamo parlato. A braccio. La discussione che ne è uscita fuori è stata allora piena di parentesi, cambi direzionali e sterzate. Forse addirittura veri e propri fuori strada. Questo non ci ha però intimoriti. Anzi, ci ha permesso di ragionare sul tipo di approfondimento adatto – o che ci stimolasse di più nella stesura – per raccontare il suo lavoro. Senza raccontarlo troppo, in realtà.
Abbiamo dunque deciso di voler restituire un mood più che un discorso critico-saggistico, che assecondasse maggiormente la linea poetica piuttosto che quella comunicativa. Che facesse emergere ciò che si situa nell’inspiegabile a parole e ciò che invece può essere tradotto e sintetizzato tramite il linguaggio.
Il testo che segue è stato scritto a quattro mani: quasi dei botta e risposta fra me e Ferretti, seguendo sempre quella logica di andare ‘a braccio’ che tanto ci aveva affascinato in studio.
‘Ci sono cose spiegabili a parole e cose inspiegabili a parole’: l’arte? La vita stessa? Le emozioni? Non lo sappiamo, e questi eterni dubbi hanno dato vita al confronto messo in scena qui, a poche righe da quello che state leggendo adesso: invenzione poetica e comunicazione; prossimità e lontananza…
Questa notte il buio segnava un corpo in mezzo alla stanza. Forse erano solo i vestiti appoggiati sulla sedia. “Ci sono cose spiegabili a parole e cose inspiegabili a parole”, e l’esistenza, probabilmente, insieme alla percezione della stessa, si pone in bilico tra questo spiegabile/inspiegabile. La razionalizzazione nevrotica – per parafrasare un po’ alla buona Luca Maria Patella – ci porta a oscillare costantemente e presuntuosamente fra categorie immutabili. Forse questa notte c’era realmente qualcuno immobile in mezzo alla mia camera. O forse potrebbe inverosimilmente non essere stato così?
Certe volte, quando si verificano determinati presupposti, potrei realmente immaginare nelle forme mutevoli delle nuvole un elefante, ma poi la fugacità di quella visione, senza lasciare neanche un minuto di vuoto, lascia presto il posto a una nuova immagine, che piano piano anch’essa si allunga e poi si dirada. Mi capita così anche di ritrovarmi a contemplare gli insetti, a pensarmi al contempo molto più grande di loro e infinitamente più piccolo di una stella. E in questi ragionamenti mi ritrovo per poco e dolcemente sospeso dalla mia condizione umana. È solo in quei brevi istanti di assenza tra un’immagine e un’altra che si condensa e può aver luogo la poesia. Tutto il resto ha un suo peso specifico ed è soggetto alle regole e alle limitazioni che lo subordinano.
Gli oggetti (ri)trovati, casualmente, sono leggeri. Proprio come le nuvole, in cerca di una trasformazione immaginifica. Non hanno il peso della storia, o meglio, hanno un’agilità figlia delle storie non verificate che possono essere narrate a partire da un’inconsapevolezza di fondo. Una pietra di una strana forma può diventare finalmente lo scheletro di un essere indefinito. Le mappe, svincolate da un rimando ‘oggettivo’ con un luogo preciso e stabilito, sono finalmente libere. Ecco la manifestazione di un luogo impossibile, utopico, inventato, fantasioso, extra-dimensionale, sovrasensibile.
Ma aspetta un secondo, intravedo un riflesso dietro di me. Non sono più sicuro di quello che sto descrivendo. La comunicazione ha lasciato la presa, e dietro c’è la narrazione poetica, a braccia aperte. Mi son fidato, e mi sono lasciato cadere.
Fra le sue braccia.
In questo gesto di fiducia incondizionata, è bene però ricordare che, eccetto in pochi casi fortunati che molto spesso sono passati alla storia come racconti di mistici e di eroi, non sempre la poesia – così come la pittura – può avvenire per folgorazione improvvisa. Anzi, nella dimensione del poetare per versi, così come del dipingere, questa è esclusivamente frutto di un’intenzionalità descrittiva e si restituisce il più delle volte come l’inseguimento perpetuo di una precisa immagine, leggera e ineffabile, che tentiamo di volta in volta di afferrare. In entrambi i processi immaginativi, sia che l’esperienza sensibile preceda/segua l’espressione verbale, sia che si svolga contemporaneamente, se hai deciso di intendere questa strada e ti sei gettato ad occhi chiusi fra le sue braccia, sappi che – da adesso in poi – tutto avverrà con una sorta di spaesamento o di distanziamento. E nulla ti sembrerà più come prima. [A volte ti sembrerà di barare]
Barare perché tutto in questa dimensione è attuabile? Oppure perché fra queste braccia il flusso degli avvenimenti si presenta realmente per ciò che deve essere?
Non lo so! Rispondo io. Oppure l’altro.
Ciò che rimane immutabile nella sua consistenza durante la mia esistenza è pressoché nulla. O poco più.
Quel ‘più’, forse (ecco un’altra teoria invece variabile), è l’interstizio nel quale si situa l’arte. Torno bestia comunicativa per un altro attimo: fra il dramma dell’esistenza e le meccaniche vicissitudini quotidiane l’arte sta nel mezzo. Alle volte si sbilancia da un lato; altre volte dall’altro. Ma sempre sbilanciata si pone. Così nella forma – come nell’essenza. Sempre fisiologica. E questo sbilanciamento – od oscillazione se si preferisce – è una delle poche cose immutabili, e si ricollega alla nostra essenza. Pura e, nuovamente, fisiologica.
Pensando queste cose, come si può pensare di barare? E soprattutto, si può barare se stessi? O, peggio ancora, gli altri? A quale scopo? È corretto parlare di ‘scopo’? Ed esiste qualcosa di corretto a priori? Cioè, allora, cosa rimane immutabile oltre noi?
Forse sono tornato fra le braccia della narrazione poetica, ma come vedi sono pieno di domande e solo qui – e così! – riesco a sfogarle. Un’altra cosa immutabile! Immagino che così avveniva anche nella tragedia antica. Le espressività grottesche delle maschere, private di tutto ciò che necessariamente le rendevano espressioni formali, le azioni stilizzate dell’attore che, con pochi movimenti istrionici iniziava a vivificare il racconto negli occhi spaesati degli spettatori, il canto del coro, che amplificava le emozioni nei momenti più salienti del dramma, erano tutti meccanismi di trascendenza, che contribuivano a rendere la rappresentazione carica di una forza emotiva molto coinvolgente. In un crescente amplificato di sintonia con i fatti narrati, ogni spettatore del popolo ateniese o di chi vi era accorso per l’occasione veniva sedotto e assorbito dalla sua energia totalizzante fino al punto in cui la rappresentazione, elevata al suo punto massimo, culminava nell’ultimo atto in un totale clima di estasi, dove ogni singola individualità si fondeva completamente nell’altra, come un’unica entità.
Non ti sembra che in questo mascheramento esasperato dell’individualità vi sia una verità di fondo? E che in qualche modo questo sentimento abbia a che fare con l’immutabilità a cui ti riferivi prima?
Quando queste immedesimazioni – in altro – si possono definire individualità? Forse è questo il punto. O forse no. Non lo so.
Le cartografie inventate che non rispecchiano nessun luogo geografico preciso possiedono un’individualità propria? Credo proprio di sì.
Forse è questo il grande merito dell’arte. Si è fatto l’esempio del teatro, delle arti visive, del mascherarsi: finzioni che evidenziano verità di fondo.
Ecco il cortocircuito, finalmente! Ed ecco la verità di fondo delle cose. Riferendosi sempre alle cartografie citate poco fa: esse sono vere tanto quanto quelle che esprimono graficamente un luogo preciso e identificabile geograficamente? Anche se questo luogo non l’ho mai visto con i miei occhi? O sicuramente non con quelle connotazioni ‘astratte’, o meglio, di sintesi topografica? E, soprattutto, sono luoghi anche se vivono solo nella fantasia – fino a prova contraria – e sulla carta?
Vabbè, il discorso sulle utopie ed eterotopie è forse da evitare adesso. Quando finiscono su carta si restituiscono come allusioni a un’immagine molteplice e agli aspetti specifici che abbiamo deciso di circoscrivere da quell’immagine, o solamente di quelli che – con più o meno esattezza – siamo riusciti a ricopiare. Così avviene quando iniziamo a scrivere un racconto o pensiamo a una composizione pittorica. Astraiamo dalla molteplicità della realtà, o di quella che per ciascuno di noi essa rappresenta, un luogo di partenza che poi, con poche linee, definiamo e andiamo a fermare.
Le opere che ho selezionato per questo approfondimento, per esempio, contengono al loro interno tutte e tre un certo grado di distanza rispetto a quell’immagine e segnano in qualche modo il percorso che intercorre tra quella molteplicità e l’immagine individuale. Ecco allora che la matrice xilografica verrà riprodotta fino a quando sarà in grado di stampare immagini definite di quel luogo e che il basamento in legno della pietra Suiseki custodisce al suo interno una sua parte (l’impronta di quell’oggetto), o che l’immagine fotografica cattura nel gioco di specchi il riflesso sul vetro. In tutti e tre i casi l’apparenza non viene più fruita direttamente come apparenza, ma in quanto simbolo. Un’allusione a quel luogo di partenza.
Forse siamo proprio tutto quello che abbiamo definito. E soprattutto siamo molte altre possibilità non (ancora) avvenute. In potenza. Simbolici perché in carenza di definizioni immutabili. Alla ricerca di significati poiché, per natura, nati in difetto e vissuti al negativo della Realtà. L’arte può solamente muoversi per osmosi.
Tutti questi simboli sono immersi in questo flusso osmotico e, in base alla differenza del potenziale magnetico a cui sono sollecitati, s’invischiano o si separano dalla realtà, sembrandoci talvolta immagini tanto coincise quanto menzognere e altre volte invece quasi verità.