CI SONO COSE SPIEGABILI A PAROLE E COSE INSPIEGABILI A PAROLE

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MATTIA FERRETTI X FEDERICO PALUMBO

Quello che leggerete a breve è il risultato di diversi confronti, più o meno serrati, portati avanti  da me e da Mattia Ferretti. 

Ci siamo incontrati da Osservatorio Futura un po’ di tempo fa e lì, senza assecondare troppo  alcun tipo di discorso più o meno preciso, abbiamo parlato. A braccio. La discussione che ne  è uscita fuori è stata allora piena di parentesi, cambi direzionali e sterzate. Forse addirittura  veri e propri fuori strada. Questo non ci ha però intimoriti. Anzi, ci ha permesso di ragionare  sul tipo di approfondimento adatto – o che ci stimolasse di più nella stesura – per raccontare il  suo lavoro. Senza raccontarlo troppo, in realtà. 

Abbiamo dunque deciso di voler restituire un mood più che un discorso critico-saggistico, che  assecondasse maggiormente la linea poetica piuttosto che quella comunicativa. Che facesse  emergere ciò che si situa nell’inspiegabile a parole e ciò che invece può essere tradotto e  sintetizzato tramite il linguaggio. 

Il testo che segue è stato scritto a quattro mani: quasi dei botta e risposta fra me e Ferretti,  seguendo sempre quella logica di andare ‘a braccio’ che tanto ci aveva affascinato in studio. 

‘Ci sono cose spiegabili a parole e cose inspiegabili a parole’: l’arte? La vita stessa? Le  emozioni? Non lo sappiamo, e questi eterni dubbi hanno dato vita al confronto messo in scena  qui, a poche righe da quello che state leggendo adesso: invenzione poetica e comunicazione;  prossimità e lontananza… 

Mattia Ferretti, 2016, x-map (matrice xilografica), incisione in rilievo su 9 tavolette in
 legno di faggio, 35x25x0.5 cm (x9) – courtesy of the artist
Mattia Ferretti, 2016, x-map (matrice xilografica), incisione in rilievo su 9 tavolette in
 legno di faggio, 35x25x0.5 cm (x9), dettaglio – courtesy of the artist

Questa notte il buio segnava un corpo in mezzo alla stanza. Forse erano solo i vestiti  appoggiati sulla sedia. “Ci sono cose spiegabili a parole e cose inspiegabili a parole”, e  l’esistenza, probabilmente, insieme alla percezione della stessa, si pone in bilico tra questo  spiegabile/inspiegabile. La razionalizzazione nevrotica – per parafrasare un po’ alla buona  Luca Maria Patella – ci porta a oscillare costantemente e presuntuosamente fra categorie  immutabili. Forse questa notte c’era realmente qualcuno immobile in mezzo alla mia camera. O forse potrebbe inverosimilmente non essere stato così?

Certe volte, quando si verificano determinati presupposti, potrei realmente immaginare nelle  forme mutevoli delle nuvole un elefante, ma poi la fugacità di quella visione, senza lasciare  neanche un minuto di vuoto, lascia presto il posto a una nuova immagine, che piano piano  anch’essa si allunga e poi si dirada. Mi capita così anche di ritrovarmi a contemplare gli insetti,  a pensarmi al contempo molto più grande di loro e infinitamente più piccolo di una stella. E in  questi ragionamenti mi ritrovo per poco e dolcemente sospeso dalla mia condizione umana.  È solo in quei brevi istanti di assenza tra un’immagine e un’altra che si condensa e può aver  luogo la poesia. Tutto il resto ha un suo peso specifico ed è soggetto alle regole e alle  limitazioni che lo subordinano. 

Gli oggetti (ri)trovati, casualmente, sono leggeri. Proprio come le nuvole, in cerca di una  trasformazione immaginifica. Non hanno il peso della storia, o meglio, hanno un’agilità figlia  delle storie non verificate che possono essere narrate a partire da un’inconsapevolezza di  fondo. Una pietra di una strana forma può diventare finalmente lo scheletro di un essere  indefinito. Le mappe, svincolate da un rimando ‘oggettivo’ con un luogo preciso e stabilito,  sono finalmente libere. Ecco la manifestazione di un luogo impossibile, utopico, inventato,  fantasioso, extra-dimensionale, sovrasensibile. 

Ma aspetta un secondo, intravedo un riflesso dietro di me. Non sono più sicuro di quello che  sto descrivendo. La comunicazione ha lasciato la presa, e dietro c’è la narrazione poetica, a  braccia aperte. Mi son fidato, e mi sono lasciato cadere. 

Fra le sue braccia. 

In questo gesto di fiducia incondizionata, è bene però ricordare che, eccetto in pochi casi  fortunati che molto spesso sono passati alla storia come racconti di mistici e di eroi, non  sempre la poesia – così come la pittura – può avvenire per folgorazione improvvisa. Anzi, nella  dimensione del poetare per versi, così come del dipingere, questa è esclusivamente frutto di  un’intenzionalità descrittiva e si restituisce il più delle volte come l’inseguimento perpetuo di  una precisa immagine, leggera e ineffabile, che tentiamo di volta in volta di afferrare. In  entrambi i processi immaginativi, sia che l’esperienza sensibile preceda/segua l’espressione  verbale, sia che si svolga contemporaneamente, se hai deciso di intendere questa strada e ti  sei gettato ad occhi chiusi fra le sue braccia, sappi che – da adesso in poi – tutto avverrà con  una sorta di spaesamento o di distanziamento. E nulla ti sembrerà più come prima. [A volte ti  sembrerà di barare]

Barare perché tutto in questa dimensione è attuabile? Oppure perché fra queste braccia il  flusso degli avvenimenti si presenta realmente per ciò che deve essere? 

Non lo so! Rispondo io. Oppure l’altro. 

Ciò che rimane immutabile nella sua consistenza durante la mia esistenza è pressoché nulla.  O poco più.

Quel ‘più’, forse (ecco un’altra teoria invece variabile), è l’interstizio nel quale si situa l’arte.  Torno bestia comunicativa per un altro attimo: fra il dramma dell’esistenza e le meccaniche  vicissitudini quotidiane l’arte sta nel mezzo. Alle volte si sbilancia da un lato; altre volte  dall’altro. Ma sempre sbilanciata si pone. Così nella forma – come nell’essenza. Sempre  fisiologica. E questo sbilanciamento – od oscillazione se si preferisce – è una delle poche cose  immutabili, e si ricollega alla nostra essenza. Pura e, nuovamente, fisiologica. 

Pensando queste cose, come si può pensare di barare? E soprattutto, si può barare se stessi?  O, peggio ancora, gli altri? A quale scopo? È corretto parlare di ‘scopo’? Ed esiste qualcosa  di corretto a priori? Cioè, allora, cosa rimane immutabile oltre noi? 

Forse sono tornato fra le braccia della narrazione poetica, ma come vedi sono pieno di  domande e solo qui – e così! – riesco a sfogarle. Un’altra cosa immutabile! Immagino che così avveniva anche nella tragedia antica. Le espressività grottesche delle  maschere, private di tutto ciò che necessariamente le rendevano espressioni formali, le azioni  stilizzate dell’attore che, con pochi movimenti istrionici iniziava a vivificare il racconto negli  occhi spaesati degli spettatori, il canto del coro, che amplificava le emozioni nei momenti più  salienti del dramma, erano tutti meccanismi di trascendenza, che contribuivano a rendere la  rappresentazione carica di una forza emotiva molto coinvolgente. In un crescente amplificato  di sintonia con i fatti narrati, ogni spettatore del popolo ateniese o di chi vi era accorso per  l’occasione veniva sedotto e assorbito dalla sua energia totalizzante fino al punto in cui la  rappresentazione, elevata al suo punto massimo, culminava nell’ultimo atto in un totale clima  di estasi, dove ogni singola individualità si fondeva completamente nell’altra, come un’unica  entità. 

Non ti sembra che in questo mascheramento esasperato dell’individualità vi sia una verità di  fondo? E che in qualche modo questo sentimento abbia a che fare con l’immutabilità a cui ti  riferivi prima? 

Mattia Ferretti, ritratto allo specchio, me and the Ghost of the Italian Painter Antonio Ligabue – courtesy of the artist

Quando queste immedesimazioni – in altro – si possono definire individualità? Forse è questo  il punto. O forse no. Non lo so. 

Le cartografie inventate che non rispecchiano nessun luogo geografico preciso possiedono  un’individualità propria? Credo proprio di sì. 

Forse è questo il grande merito dell’arte. Si è fatto l’esempio del teatro, delle arti visive, del  mascherarsi: finzioni che evidenziano verità di fondo.

Ecco il cortocircuito, finalmente! Ed ecco la verità di fondo delle cose. Riferendosi sempre alle  cartografie citate poco fa: esse sono vere tanto quanto quelle che esprimono graficamente un  luogo preciso e identificabile geograficamente? Anche se questo luogo non l’ho mai visto con  i miei occhi? O sicuramente non con quelle connotazioni ‘astratte’, o meglio, di sintesi  topografica? E, soprattutto, sono luoghi anche se vivono solo nella fantasia – fino a prova  contraria – e sulla carta? 

Vabbè, il discorso sulle utopie ed eterotopie è forse da evitare adesso. Quando finiscono su carta si restituiscono come allusioni a un’immagine molteplice e agli  aspetti specifici che abbiamo deciso di circoscrivere da quell’immagine, o solamente di quelli  che – con più o meno esattezza – siamo riusciti a ricopiare. Così avviene quando iniziamo a  scrivere un racconto o pensiamo a una composizione pittorica. Astraiamo dalla molteplicità  della realtà, o di quella che per ciascuno di noi essa rappresenta, un luogo di partenza che  poi, con poche linee, definiamo e andiamo a fermare. 

Le opere che ho selezionato per questo approfondimento, per esempio, contengono al loro  interno tutte e tre un certo grado di distanza rispetto a quell’immagine e segnano in qualche  modo il percorso che intercorre tra quella molteplicità e l’immagine individuale. Ecco allora che la matrice xilografica verrà riprodotta fino a quando sarà in grado di stampare  immagini definite di quel luogo e che il basamento in legno della pietra Suiseki custodisce al  suo interno una sua parte (l’impronta di quell’oggetto), o che l’immagine fotografica cattura nel  gioco di specchi il riflesso sul vetro. In tutti e tre i casi l’apparenza non viene più fruita  direttamente come apparenza, ma in quanto simbolo. Un’allusione a quel luogo di partenza. 

Forse siamo proprio tutto quello che abbiamo definito. E soprattutto siamo molte altre  possibilità non (ancora) avvenute. In potenza. Simbolici perché in carenza di definizioni  immutabili. Alla ricerca di significati poiché, per natura, nati in difetto e vissuti al negativo della  Realtà. L’arte può solamente muoversi per osmosi. 

Tutti questi simboli sono immersi in questo flusso osmotico e, in base alla differenza del  potenziale magnetico a cui sono sollecitati, s’invischiano o si separano dalla realtà,  sembrandoci talvolta immagini tanto coincise quanto menzognere e altre volte invece quasi  verità.