RAFFIGURAZIONE DELLA MEMORIA COME ESPRESSIONE DI MERAVIGLIA

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MAURO VALSECCHI X ELEONORA SAVORELLI

Eleonora Savorelli: La tua ricerca si muove all’interno della cornice della percezione visiva, seguita dalla luce, e dalla frammentazione delle immagini. Seguono poi i ricordi in quanto immagini rarefatte, e la distanza tra realtà e memoria. Come illustreresti la tua pratica artistica a chi la incontra per la prima volta?

Mauro Valsecchi: Trovo spesso difficoltà nello spiegare la mia pratica artistica riguardo a cosa mi interessa; poiché dovrei rispondere: tutto, o meglio: tutta la rappresentazione del mondo visibile. Ma mi rendo conto che detto così, anche se onnicomprensivo, possa sembrare limitativo nonché superficiale. Perciò questo “tutto” lo sfaccetto in tante lamelle, che preferisco chiamare elementi ricorrenti a tematiche. Questi elementi ricorrenti sono la forma della luce, la soglia di percezione visiva, il limite di esistenza sensibile, la frammentazione dell’immagine, il piacere e l’inquietudine del ricordo nel rapporto tra reale e immaginario. Sembrano elementi totalmente concettuali, astratti, invece è esattamente l’opposto, poiché questi elementi mutano rapidamente in soggetti: volti, paesaggi, le nuvole, dei cani, figure femminili, gesti e pose di corpi nello spazio, movimenti o immobilità di luoghi e persone. Tutti questi soggetti si prestano al mio sguardo e diventano man mano ricorrenti, familiari, mi ci affeziono; al punto che la loro essenza è importante per me nel comunicare qualcosa, ma solo se precedentemente loro l’hanno comunicata a me e, nel disegnarli o dipingerli o nel creare delle installazioni, io tento di capire il significato di questo “qualcosa”. Devo accennare anche al realismo che emerge dal mio lavoro: io non voglio mai spingermi verso il realismo fotografico, l’iperrealismo; infatti per quanto realistico possa essere un volto disegnato si nota subito lo scarto della finzione, si vede che è un disegno non una foto, e mi va bene così; oltretutto, per assurdo, è più semplice rappresentare qualcosa di onirico, fiabesco, surreale, ma non raffigurare l’usuale parvenza delle cose sotto i nostri occhi.

Il “tutto” al quale dico di essere interessato è nell’accezione della meraviglia: io sono meravigliato ogni volta che vedo, perché non posso più credere alla realtà, intesa come realtà materiale assoluta; ciò che definisco reale è lo spazio delle visioni quotidiane. Questo è il reale delle mie affezioni: un luogo talmente sotto il nostro occhio vigile da essere sconosciuto. L’ignoto come realtà che abbiamo attorno e appare così com’è: pienamente affascinante. Quindi uso l’arte come un mezzo per vedere, uso elementi e soggetti per capire. Il realismo è imprescindibile se la realtà diventa dubbia, poiché è dubbia la sua proiezione nel mio cervello, ossia parziale; mi interessa questo scarto: l’immagine ravvisabile che diventa coscienza, ricordo, memoria.

ph. Emanuele Delle Fave
ph. Emanuele Delle Fave

E.S.: Un aspetto della tua arte che mi affascina particolarmente è come riesci ad illustrare la sensazione del ricordo. La esprimi disegnando le stesse immagini – qui voglio concentrarmi sui volti – molte volte, affidandoti solo alla memoria. Ridisegnandole, queste perdono i loro dettagli iniziali e diventano qualcos’altro. Così come succede ai ricordi lontani, queste immagini si rarefanno, diventano misteriose e lievemente malinconiche. In tutto questo intravedo una certa estetica dell’incompiuto e della lontananza. Come ti relazioni con queste immagini?

M.V.: La mia famiglia mi ha insegnato prestissimo a tenere stretti i ricordi. Nel pranzo domenicale coi nonni usiamo prettamente verbi al passato per raccontarci storie, i nostri cassetti degli armadi sono pieni di album fotografici e scatole debordanti di diapositive che hanno fermato innumerevoli attimi di viaggi estivi o eventi celebrativi privati, nelle case delle zie più anziane non mancano nemmeno gli altari commemorativi con oggetti e ritratti di chi non vive più il nostro tempo ma ci fa ancora compagnia. Questo perché ricordare significa in qualche modo anche immaginare, ovvero percepire le cose che ci stanno attorno come continue metamorfosi dei nostri pensieri.

Per spiegare meglio la relazione con le immagini scomoderò qualche scrittore, ad esempio, nel “De anima”, Aristotele, chiama in due modi le immagini che sorgono dalla mente: phantasma e phantasia, entrambi dal verbo phaino, ovvero “mostrare”. Sono figurazioni che “si mostrano” in noi come un richiamo a percezioni avute o possibili. Queste immagini nella mente sono una combinazione di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi e ciò che opiniamo con l’intelletto. Infatti, la memoria stessa è un portato dell’immaginazione; dunque immaginazione e memoria non sono separabili. Ricordare vuol dire in qualche modo immaginare la cosa ricordata, ripensarla fantasticamente: che la memoria è della stessa sostanza della fantasia era anche l’idea del filosofo Giambattista Vico. Quindi le immagini che produco sono delle visioni, ovvero uno strano processo di percezione della realtà. 

Visione suona come qualcosa di ascetico e primordiale ma per me è l’opposto: la percepisco come quotidiana, ordinaria e necessaria per il rapporto con l’altro; è sensoriale: perché pare arrivare dall’esterno, nello spazio dei fenomeni, ma poi cambia ed entra in noi cominciando a brulicare, crescere e prendere forma con qualcosa che ci è caro, intimo. Il vedere con gli occhi chiusi, socchiusi, con la coda dell’occhio o tra un rapido battito di ciglia, presuppone qualcos’altro: uno spostamento di rapporti tra la rappresentazione di quello che vediamo e l’affetto di cui si carica ciò che abbiamo visto. Non è la cosa vista che conta, ma all’affetto o il sintomo per cui la cosa vista appare o riappare nel pensiero, intensificata nella forma di un’immagine. Per questo motivo i volti disegnati non sono mai copiati, dal vero o da una fotografia, ma immaginati; e ci tengo a sottolineare che il volto raffigurato non è inventato, quel volto è stato visto, s’è sedimentato nella memoria e per qualche motivo poi risale alla vista non più da fuori ma da dentro e finisce impresso su qualche superfice. A volte ho la necessità di ridisegnare un viso (o un corpo) per capire bene cosa voglio ricordare, cosa vorrei recuperare dalle sue forme e linee; altre volte capita che somigli molto alla persona amata con cui ho cenato due giorni addietro o a una persona sconosciuta incrociata per strada; capita persino che diventi esemplare, e il volto di una donna anziana sia quello di mia nonna anche se non le somiglia.

ph. Emanuele Delle Fave

E.S.: I tuoi paesaggi – intesi sia come spazi aperti e schiere di alberi, che sezioni interne di case e scale che si avvolgono su sé stesse – sembrano essere spazi compositi: se da una parte sono angoli e dettagli che tutti potremmo aver visto, dall’altra conservano una forte componente personale, che rende questi spazi insoliti e misteriosi. Spazi a metà tra il pubblico e il privato: quanto queste immagini dicono di te? E quanto sono frutto dell’immaginazione?

M.V.: Un bosco illuminato dalla luce soffusa del tramonto, la scalinata che sale a chiocciola fino a far venire le vertigini, nuvole sospese che vorticano e si sfilacciano, una camera vuota di un casale abbandonato dove parte del tetto è crollato s’è fuso col pavimento: sono tutte immagini che voglio disegnare, perché le sento vicine e anche perché sono sul confine tra realtà e immaginazione; evocano un’atmosfera. A me piacciono più di tutto i viaggi minimi del fine settimana, quelli nel raggio di cinque o sei chilometri da casa mia che è un paesaggio di periferia campestre, nemmeno vera campagna, ma per me è un bacino dove le immagini che scorgo si rivelano cariche di un significato nuovo. Dicono di me perché ci vivo dentro a questi luoghi, sono frutto dell’immaginazione perché anche una sequela di sedici tigli può trasportarti in un bosco millenario e una casa abbandonata ti può far vivere la vita d’un altro, in un altro tempo, anche proiettata nel futuro. Difatti il mio è un esercizio quotidiano di gesti e comportamenti che mi portano a scoprire questi luoghi, paesaggi, come quello del camminare, passeggiare, e anche qui scomodo un altro scrittore, Robert Walser e il suo bellissimo romanzo intitolato “La passeggiata” dove mi ha mostrato che attorno a noi c’è qualcosa che non è solo aria, è quell’atmosfera, composta da tantissime cose che vediamo e non vediamo, che sentiamo o ci sembra di sentire, è uno spazio costituito da tutti quelli che non sono più in vita, da delle voci che ti arrivano all’orecchio da chissà dove, cinguettii, anche un albero visto lateralmente che sembra un solo un’ombra, due cani che si rincorrono e azzuffano dove in alcuni momenti appaiono come uno solo, una donna seduta sul bordo del canale d’irrigazione dei campi che ti accenna un sorriso e la tua mente e già andata chissà dove … forse è stato destino che sia diventato anche un esercizio artistico-visuale oltre a una comune abitudine.

ph. Emanuele Delle Fave

E.S.: Lo scarto tra reale ed immaginario, tra concretezza e fluidità della memoria mi ricorda il concetto di “fantasticazione”, termine coniato da Gianni Celati che unisce i concetti di fantasia ed immaginazione. Ho l’impressione che tu ti voglia allontanare da una visione diretta e univoca delle cose; fuggi, “da questo delirio di concretezza” – la citazione è di Federigo Tozzi, altro scrittore a te caro. Credi che sia necessaria una riscoperta di questo tipo di approccio sulla vasta scala?

M.V.: La lingua italiana moderna non attesta il sostantivo fantasticazione, ma solo il verbo fantasticare nel significato di “cercare con la fantasia una spiegazione, ragione, idea”, o più spesso nell’accezione negativa di “abbandonarsi a congetture fantastiche”. I sostantivi fantasticaggine o fantasticheria hanno similmente un’accezione negativa, nell’indicare bizzarria, stravaganza, o chimera. Nel coniare “fantasticazione” Celati si discosta dall’accezione negativa del fantasticare, recuperando questo atto come fondamentale al vivere e al pensiero umano. Infatti, come hai ben precisato tu, fonde i concetti di fantasia e immaginazione. Senza scendere troppo nel dettaglio, alcuni autori italiani tra cui Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni, riaprono una fondamentale questione filosofica: quella della coscienza del mondo, ponendo in dubbio la divisione netta tra ragione e fantasia, tra intelletto e percezione sensibile, una dicotomia storicamente a favore del primo dei due termini. Con la fine dell’Umanesimo e l’avvento del Barocco svanisce il senso di un intelletto comune, di un immaginario condiviso da una popolazione, e nasce l’idea del singolo pensatore, ovvero, secondo Celati, “dell’uomo solo”; allo stesso tempo il fantasticare viene relegato al patologico, come viene più tardi nella psicanalisi a partire da Freud. Invece altri pensatori come Averroè, Vico, Platone, Melandri, rivalutano l’analogia come metodo di conoscenza più naturale a differenza del principio di identità che costringe sempre a far riferimento a un’origine ideale e fissa delle cose, per l’appunto il “delirio di concretezza” citato da Federigo Tozzi. La capacità di avvicinarsi al mondo attraverso le somiglianze tra ciò che si è già vissuto e una situazione nuova rende l’artista simile all’uomo comune e ci ricorda che il fantasticare, prima di essere una questione artistico-letteraria, è una delle più importanti facoltà umane, l’unica che ci permette di affrontare la vita prescindendo da qualsiasi astrazione. 

Credo che sia necessario un bagno d’umiltà e consapevolezza, in special modo nella figura dell’artista e in quello che produce; io penso di essere un artista solo come seconda parte, per la prima parte sono una persona. Come tale penso, e il pensiero è elemento sostanziale di quello che faccio. D’altronde credo sia questa la nostra grazia esistenziale umana: non poter fare a meno di pensare, vedere, sentire, ricordare e immaginare per poi tentare di donare le nostre immagini agli altri; uno scambio di visioni, fino a ricreare un qualcosa di familiare, di collettivo, che avrà fine solo quando si disperderà come polvere al vento nell’aperto mondo, tornando al nulla. Detto così pare essere la sintesi del corso di una vita, dove aggiungerei solo qualche lampo e brivido per definirla degna d’essere vissuta.

E.S.: Credo che la parola “iconotesto” descriva bene il tuo approccio artistico: testo ed immagini – che possono essere disegni o fotografie – si incontrano per costituire un’unica opera composita. L’esempio più completo di questo metodo sono i tuoi taccuini: disegni e racconti si susseguono, senza per forza seguire una logica compositiva. Come deve essere interpretata la decisione di unire questi due aspetti? Quali sono le sue conseguenze?

M.V.: Il taccuino è emblematico sia come esercizio quotidiano che come origine della mia poetica e ricerca artistica. Infatti la parola iconotesto è arrivata solo in un secondo momento, dopo aver introiettato l’importanza dell’uso del taccuino come raccolta dei dati osservati e immaginati.

Non avevo compreso l’importanza dei miei taccuini fino al conseguimento della laurea triennale, dove, nella ricerca infruttuosa di un argomento di tesi, il mio relatore, nonché bravissimo artista e caro amico, Giovanni De Lazzari ha scoperto i miei taccuini per me. Una mole notevole di taccuini utilizzati accumulati negli anni deposti in scatole. E ha capito subito che non erano canonici sketchbook, infatti tra le pagine disegnavo e appuntavo parole proprio come se fossero delle opere pronte da esporre; per cui non ci sono macchie di prove colore, disegni abbozzati, progetti per elaborazioni più grandi. Ci sono disegni e scritti definitivi che vivono tra quelle pagine, poiché i taccuini li facevo e faccio per me, è una necessità, come bere e mangiare; ogni giorno disegno pensieri e scrivo immagini: questa inversione testuale non vuole essere solo un escamotage lessicale pretenzioso, è così che vanno le cose, ovvero mi capita di scrivere dei pensieri quando girovago, di inventare racconti su quello che vedo e mi sembra di vedere, o descrivere delle situazioni e poi tornando a casa, seduto sulla sedia, davanti alla scrivania, a volte cancello le parti scritte per disegnare cercando di restituire quell’atmosfera, quel soggetto, quella sensazione appuntata in frasi. Ma non tutte le parole annotate vengono cancellate, perciò i testi sopravvissuti alla gomma appaiono come una sorta di scrittura asemica a causa della mia calligrafia in corsivo: fitta, allungata e frettolosa, ma sono racconti, impressioni, pensieri, che nel tempo li ho definiti “testo-immagini”.

La decisione di unire questi aspetti non l’ho presa in senso produttivo, è nata in modo naturale; la decisione semmai è stata meditativa, ovvero studiare questa dicotomia/armonia, soffermarsi sulla eterogeneità/similitudine dei disegni e testi che si trovano nei taccuini, per cui le conseguenze sono state la scoperta e l’analisi dell’iconotesto durante la mia laurea magistrale e il desiderio di utilizzare sempre di più questo format nelle opere che produco. Questo perché, in breve, l’iconotesto ha il fascino dell’ibrido, sfida il canone, costringendo la lettura non solo a rinunciare alla sua presunta e presupposta purezza verbale ma contaminandola persino con le immagini: un rapporto tra parole e immagine di connessione in una struttura unica, in cui sia difficile definire dove finisca il testo e dove cominci l’immagine; però dove le rispettive differenze non vengano fuse. I miei taccuini rispecchiano chiaramente questa peculiarità: dei corsivi annotati a mano descrivono una persona che pesca al fiume si susseguono a disegni raffiguranti una pineta; dei disegni di volti femminili con gli occhi chiusi frammentano un racconto d’infanzia che proseguirà qualche pagina dopo, eccetera…

Alla fine ho denominato tutta la mia produzione nei taccuini come una grande opera, sotto il titolo “Il Raccolto”. Il Raccolto perché, quando inizio una nuova esplorazione, un nuovo interesse, una nuova fascinazione, lo spazio del taccuino è il luogo del deposito, un campo arato pronto per la semina, rimanendo nella metafora, che si riempie progressivamente di momenti immaginati, ripensati e descritti, dove, al termine, io raccolgo i frutti maturati. Inoltre ho anche tentato di mettere in mostra dei taccuini in modo rivisitato, più fruibile; rompere quel patto intimo e univoco che è la lettura, l’osservazione, di un taccuino come libro, con delle installazioni degli stessi, a volte con dei buoni risultati.

ph. Emanuele Delle Fave
ph. Emanuele Delle Fave

E.S.: La parte pittorica è solo uno tra i tuoi metodi espressivi. La fotografia – in particolare le polaroid – accompagnano spesso i tuoi testi e disegni. Mi parleresti di come queste vengono coinvolte nella tua arte?

M.V.: Ahimè non vengono coinvolte. Ho un rapporto sofferto con la fotografia, poiché fotografo spesso ma poi archivio. Sarà per questo rapporto con l’immagine ricordata che va sempre a favore di quella esplicitata. Un esempio è la grande raccolta fotografica di nuvole: sono semplici scatti realizzati con le fotocamere usa e getta dove impressiono nubi, di ogni categoria, specie e varietà. Ad oggi è diventato un archivio di più di 600 fotografie, iniziato nel 2016, che però non ha mai visto la luce dopo quella dell’impressione sulla pellicola. Le polaroid, accennate nella tua domanda, invece hanno soggetti più vari, ma non sono mai diventate un’opera o fatto parte di un’installazione. Forse hai usato la parola giusta: accompagnano, per ora fanno solo quello: nascoste, silenti, sono lì in attesa come lo sono stati inizialmente i taccuini. La fotografia per me è conoscenza e affetto: conoscenza perché deriva dal desiderio di conoscere e affetto perché quello che si vuole conoscere va compreso per familiarità. Però nell’immagine fotografica c’è già tutto, non bisogna aggiungere nulla di ulteriore e questo mi intimorisce, blocca, quindi preferisco tenerle in un cassetto.

ph. Emanuele Delle Fave

E.S.: Concentriamoci ora sugli aspetti tecnici della tua produzione. Polveri colorate e pigmenti puri sono gli elementi alla base delle tue opere, queste vengono poi pressate o trascinate con punte e sfumini per segnare la carta. Infine, sono fissate con lacche o spray. Cosa ti ha fatto propendere per questa soluzione? In che modo questa tecnica comunica meglio di altre i tuoi temi?

M.V.: I pigmenti puri di colore stanno alla matrice di ogni materiale per belle arti, un po’ come il disegno a mano sta alla base dell’espressione artistica. Questi due elementi d’origine delle cose per me sono diventati non solo tecnica ma un vero e proprio stile, un’impronta di riconoscibilità. Ho iniziato col carboncino, poi la fusaggine, anch’essi materiali polverosi e instabili, e progressivamente sono arrivato ai colori in polvere. Potrei persino dire che è stata la tecnica a favorire il mio modo di disegnare a memoria e non dal vero. Infatti, come ben accennavi, questa tecnica di disegno prevede l’utilizzo di polveri colorate che vengono pressate con delle punte o trascinate con uno sfumino a segnare la carta, oppure stese in campitura piatta e poi tolte con gomme per cancellare, in ultimo fissate con una lacca o uno spray fissativo, altrimenti svanirebbero in una passata di dito. Questo rende difficoltosa la modalità di abbozzare dal vero persone e luoghi, quindi c’è stata questa compensazione produttiva da una necessità pratica: la tecnica ha ampliato la mia sensibilità percettiva e rammemorativa. Amo molto questa tecnica che ho scoperto, perché mi costringe a lavorare solo per monocromi. Non c’è la tavolozza dei pastelli riunita nei miei disegni, che sia un paesaggio al tramonto o un volto che emerge dal buio, c’è un solo colore, per questo emerge l’atmosfera che ci circonda e rende fantastico anche un soggetto estremamente realistico.

Il monocromo cattura l’attimo fantasticato: tornando all’esempio del tramonto, delle miriadi variazioni di saturazione e tonalità che avvolgono le cose durante il tramonto il monocromo ne estrapola una: un rosa, un arancione, un rosso, un violetto, e dona una percezione talmente astratta che si dubita di averla vista, eppure per dei millisecondi, durante la calata del sole all’orizzonte, siamo stati avvolti da uno e un solo colore. Il rosso, il violetto, l’arancione, il rosa, una vera luce diffusa. Invece dove non c’è colore c’è il bianco, il vuoto, somma eppure sottrazione di colore. E tutto questo inevitabilmente esalta i miei ricordi che salgono dalla memoria, perché anche loro sono invisibili ad occhio nudo e permangono per dei millisecondi. Poi, come la polvere di pigmento, i ricordi vanno fissati altrimenti svaniscono e tornano giù, nel fondo degli occhi.

E.S.: Tu leggi molto, non riesco ad immaginarti senza i tuoi libri. Mi vengono in mente, in particolare, Celati, Cavazzoni e Benati. Quali sono i tuoi riferimenti letterari principali? Come ti influenzano, o ti hanno influenzato, nella creazione delle tue opere e nello sviluppo delle tematiche di cui ti occupi? 

M.V.: Lo so che faticherai a crederlo ma ho iniziato ad appassionarmi alla lettura da poco tempo; mi piacerebbe dirti: leggevo tantissimo da quando ero piccolo! ma non è così. Odiavo leggere, odiavo chi mi costringeva a leggere, nella disperazione totale di mia mamma che è sempre stata un’avida lettrice; io volevo solo libri illustrati: bestiari, erbari, e andavo matto per i libri dove c’erano fotografie di incisioni rupestri, reperti fossili e illustrazioni di dinosauri. Al secondo anno di accademia ero in una libreria ad acquistare dei testi consigliati per un corso e ho trovato tra gli scaffali dei libri usati il libro che è stato la mia stele di Rosetta: “Il poema dei lunatici” scritto da Ermanno Cavazzoni. Non conoscevo l’autore, tantomeno la trama, ma lo comprai; lo lessi in una giornata. Ogni tanto lo rileggo. Ora non mi dilungo nel raccontare la storia ma al suo interno è racchiuso un mondo fatto di assurdità plausibili e personaggi inverosimilmente ordinari; era quello che stavo cercando senza saperlo: un nuovo modo di guardare le cose di tutti i giorni. Repentinamente mi sono ritrovato sotto gli occhi filone di scrittori, prettamente italiani, quasi misconosciuti a tanti, che portano a un vero e proprio giacimento d’oro. Ho iniziato a leggere tantissimo, a riempire scaffali e mensole di libri, ho iniziato a trarre ispirazione dalla letteratura, da scrittori e narratori, non tanto da saggi ma da romanzi e non da romanzi best-seller ma da un linguaggio scritto da autori incredibili come: Italo Calvino, Federigo Tozzi, Giorgio Manganelli, Luigi Malerba, Ugo Cornia, Ermanno Cavazzoni, Gianni Celati, Daniele Benati, Raffaello Baldini, Carla Vasio, Lalla Romano, Flan O’Brien, George Perec, Samuel Butler, James Joice, Tommaso Landolfi, Borges, Berto, Wilcock. In un misto tra quello che dicono e come lo dicono mi riempiono la testa di immagini nonché alimentano la mia voglia di prendere quelle immagini e impressionarle su qualche superficie.

Mi influenzano notevolmente nella creazione delle opere e nello sviluppo di argomenti che mi interessano, uno esemplare è quello della morte, nello specifico nella forma dell’aldilà. Ho iniziato a raccogliere tantissimi esempi di aldilà raccontati da questi scrittori, alcuni sono mondi a sé stanti ma ripuliti da quella macchina infernale dantesca; altri aldilà, e sono quelli che più hanno fomentato la mia immaginazione, collimano così tanto per abitudini, forme e situazioni da potersi definire aldiqua. L’idea è in sostanza che nell’aldilà ci siamo dentro, ci viviamo, è questo qui; ci siamo dentro già dalle pene di tutti giorni e ogni tanto troviamo zone di paradiso; compiamo un percorso, come si compie nel purgatorio, però non si sa a cosa porta, cosa c’è dopo; ognuno cerca la soluzione per il suo caso, la sistemazione o una via d’uscita; ma ogni strada, ogni viaggio, è un’illusione. 

Questi ragionamenti mi hanno portato a produrre un’opera intitolata “Nell’aldiqua purgatoriale”: mette in scena questo dubbio dell’esistenza fisica e spirituale. La struttura è un richiamo a una scenografia teatrale composta da pannelli e listelli di legno. Sui pannelli di legno verniciato sono disegnate delle immagini: vedute paesaggistiche, ambienti comuni, situazioni, luoghi pregni di mutevolezza e instabilità: percezioni quotidiane; e scritti dei testi a mano: racconti inventati da me su aldiqua possibili e frasi estrapolate da autori della letteratura italiana (come Raffaello Baldini “In fondo a destra”, Daniele Benati “Silenzio in Emilia” e Federico Fellini “Il viaggio di G. Mastorna”). Tutto questo perché l’aldiqua è una casella vuota da riempire con l’immaginazione, un magico incantamento su una persona, un cane o una nuvola, che però ci fa vedere quello che non c’è, con inversioni continue tra il visibile e l’invisibile. Sui listelli di legno che sostengono questa struttura sono annodati dei bouquet di fiori di crisantemo simbolo ambivalente di lutto e bellezza in varie culture, ma qui elemento sensoriale: un profumo che rammemora un ricordo. Un’opera nata con dei presupposti di ricerca e interesse alla fine mi ha fatto prendere coscienza d’essere diventata un cenotafio in onore di mia nonna, defunta qualche mese prima della progettazione di questa installazione; i fiori, i disegni, le frasi, sono diventate inconsapevolmente una dedica a lei che sta già percorrendo questo viaggio, forse proprio nell’aldiqua; d’altronde ci sono tante cose non visibili eppure esistenti, e sono convinto le persone che amiamo non ci lasciano mai per davvero.

ph. Emanuele Delle Fave