JACOPO NACCARATO X FEDERICO PALUMBO
“L’ultima di queste storie narra di una volpe che insegna al lupo a cacciare i salmoni. Dopo aver portato il lupo fino a una crepa nel ghiaccio, la volpe gli dice di immergere la coda nell’acqua e di aspettare fino a quando non sentirà un salmone abboccare. Ma il lupo rimane lì con la coda infilata nella crepa finché il ghiaccio la blocca, e per liberarsi deve strapparne la metà. Infuriato per l’inganno, si mette subito sulle tracce della volpe[…]. Quando la volpe vede arrivare il lupo, si mette una foglia di salice davanti agli occhi, sbattendo le palpebre alla luce. Il lupo non la riconosce e chiede se ha visto la volpe colpevole di avergli fatto perdere metà della coda. No, risponde la volpe[…]. Il lupo ci casca e continua a inseguire le tracce di un’altra volpe. […] Alla fine della storia, Rasmussen non può fare a meno di chiedere che cosa significa: la fine gli sembra semplicemente «strana». Ma noi non pretendiamo che le nostre storie abbiano sempre un senso, gli risponde “La foca”, purché siano divertenti. «Solo gli uomini bianchi vogliono che tutto abbia un senso e una spiegazione, perciò i nostri vecchi dicono che dobbiamo trattare gli uomini bianchi come bambini, perché vogliono che sia sempre fatta la loro volontà. Se non è così, si irritano e gridano.»”
Federico Palumbo: Jacopo, ti ringrazio per aver rotto il ghiaccio mandandomi questa bella favola. Credo sia un bell’incipit per poter iniziare a conversare.
Non voglio destrutturare quanto citato perché cadrei nel tranello, dimostrando così di non aver appreso la “morale” della storia.
Permettimi di prendere in analisi una sola parte, però. L’uomo bianco è sicuramente il pensiero occidentale: il desiderio di trovare a tutto un significato spesso infastidisce anche me. Soprattutto nell’arte. L’alone di mistero va coltivato affinché ci possano essere opere che ne indagano l’attitudine, il senso di sgomento che ci provoca. Il razionalismo forzato molto spesso mi annoia.
Che ruolo avresti all’interno di questa storia: Foca, lupo o volpe?
Jacopo Naccarato: Ciao Federico, credo che la tua domanda sia sicuramente la più immediata da pormi dopo il piccolo testo che ti ho mandato.
Sai, ho pensato a questa domanda, non so se avrei voluto riceverla, però durante il tentativo di risponderti ho avuto occasione di riflettere su alcune cose che si sono rivelate interessanti. Tu mi chiedi in quale figura di questa favola io m’identifichi, la “foca”, la “volpe” o il “lupo”. Ti rispondo dicendo che non m’identifico in nessuno di questi tre soggetti, bensì mi sento estremamente vicino all’autore, Knud Rasmussen, scrittore ed esploratore. Rasmussen è sicuramente l’individuo alla quale mi sento più simile, egli nel suo ruolo di esploratore, come l’artista, è di certo impegnato in una ricerca, mosso da un desiderio spontaneo che lo spinge verso l’orizzonte.
Lo scrittore compie un lunghissimo viaggio in slitta per recarsi in un villaggio Inuit dell’Alaska, partito dalla Groenlandia (sua terra natale), affronta un percorso che si rivela parte stessa della sua ricerca (scriverà un libro narrando questo faticoso viaggio). Rasmussen percorre una marcia iniziatica, una sorta di sentiero della conoscenza che lo porta ad una nuova consapevolezza.
Nella sua ricerca tra le domande e i perché, scopre, solo dopo la risposta di “foca”, che talvolta non è il significato che va cercato, non è destinazione, ma forse è sufficiente un incontro alla scoperta di una singolarità, di un “unico” che si fa testimone.
Inoltre penso che Rasmussen si è inevitabilmente, come alcuni di noi, sentito sia lupo che volpe, ingannatore ed ingannato, e che forse avrà avuto anche occasione di sentirsi come “foca”, del resto siamo composti da diversi pezzi.
F.P.: Secondo me si sono già palesati alcuni elementi molto validi. Prima di tutto mi sento di dire che è forse proprio e solo l’arte in grado di porre domande che non vorremmo ricevere ma che, allo stesso tempo, poi risultano fondamentali allo sviluppo del pensiero stesso. Il risultato, come tale e per sua natura, è un insieme di risultati o di corrispondenze che però molto spesso imbrigliamo tramite la rete del significato e del senso. In questo scenario finiamo per essere pubblico ingannato oppure, altre volte, prestigiatore.
Ad ogni modo mi pare di capire che la figura dell’artista, così come la intendi te, rispecchia molto quella dell’esploratore, mosso da una curiosità – forse a tratti ingenua e inconsapevole – che lo spinge in territori non scontati.
A te quali itinerari piace percorrere? E ce n’è qualcuno che funge bene anche come incipit per il movimento stesso, a priori?
J.N.: Esatto. L’inconsapevolezza talvolta porta alle soluzioni migliori, quelle inaspettate. Il principio di serendipità è una cosa che mi affascina molto, troviamo le risposte migliori durante la ricerca di altro.
Credo che la figura dell’esploratore e quella dell’artista abbiano molti punti in comune per questo stesso principio. Molto spesso inizio ad interrogarmi su alcuni argomenti o soggetti per poi concludere in altri luoghi, come tu appunto dici, inconsapevolmente. Per me questa è la cosa più bella, sorprendersi. Come in una ricerca o stesura di una tesi, ogni informazione porta ad una successiva e così via, questo ci permette di scavare sempre più a fondo e fare incontri insoliti, tra dubbi e certezze. Nella mia ricerca mi affido spesso all’intuizione. L’intuizione non è consapevolezza e neanche conoscenza, ma piuttosto un presentimento, una sensazione, qualcosa che si trova prima della razionalità, davvero elementare e forse molto vicina all’istinto.
Grazie all’intuito riesco a formulare combinazioni nuove e soluzioni efficaci, consapevole che, in quanto del tutto empirica e incerta, l’intuizione porta spesso fuori strada, ma possiamo dire che talvolta questo “fuoripista” è l’opportunità di un nuovo incontro inaspettato.
F.P.: Sono molto affascinato da questi discorsi. E, di conseguenza, curioso di sapere come tutto questo si declina nel tuo lavoro e, soprattutto, nella tua ricerca.
J.N.: Nella mia ricerca non mi muovo in modo molto coerente, cioè, spesso lavoro conseguentemente a degli stimoli esterni ed altre volte ho delle immagini che voglio realizzare. Provo a maturare questi stimoli ed informazioni attraverso il lavoro stesso, non tendo quasi mai a premeditare ciò che faccio, certo so da cosa parto, ma elaboro le mie forme durante l’atto stesso del fare.
Quasi sempre ho approcci diversi alla mia pratica, con orari diversi ed attività diverse, tutto ciò mi porta a risultati meno ovvi, o forse mi è utile pensarlo.
Il difetto, la stortura o l’errore si rivelano nozioni utilissime, intuizioni involontarie e spontanee che magari riemergono in fasi successive del lavoro o in lavori conseguenti. Questi elementi sono quelli che davvero mandano avanti la mia ricerca. Mi capita molto spesso di recuperare spunti da vecchi lavori senza successo, inconcludenti, che però trattengono in sé potenziale inespresso, buone intuizioni. Nella vita di studio anche i momenti improduttivi si rivelano pian piano utili allo sviluppo di nuove opere.
F.P.: Tutti questi discorsi si delineano all’interno di opere come Piombo? Mi spiego meglio: il meccanismo pare rendere l’opera caotica, casuale, quasi fuori controllo. Allo stesso tempo presumo compia sempre gli stessi balzi, le stesse movenze sul masso poggiato a terra. Quanto effettivamente c’è di caotico nel caotico? Lo chiedo a te perché è una domanda che mi pongo spesso. Parlando di tali questioni mi viene in mente l’opera di Franz Kline. I lavori, considerati tra i maggiori capolavori di espressionismo astratto fanno pensare a un colpo eseguito di getto, vigoroso e immediato. Come se fosse il risultato di un’esigenza interna e fisica non-filtrata dal pensiero di una composizione formale. In realtà sappiamo che Kline pensava meticolosamente al risultato che le ‘linee nere’ dovessero avere sulla tela. Ecco quindi schizzi, bozzetti, prove. Ecco, la domanda è di nuovo la stessa: quanto c’è di caotico nel caos?
J.N.: Durante la realizzazione di “Piombo”, in realtà, c’è stata una maturazione dell’opera molto diversa rispetto al solito. In questo caso l’opera ha visto diverse forme prima di assumere quella definitiva, questo perché mi sono confrontato con campi che esulano dalle mie competenze. Ho dovuto lavorare con motori elettrici ed altri dispositivi che non conoscevo, il tutto per raggiungere un esatto risultato. Volevo che la macchina compiesse una certa azione. L’azione in questione è apparentemente la stessa, una copia che si ripete finché la macchina resta accesa, ma in verità non è proprio così. Impostando un timer l’argano sollevava il piombo fino al soffitto e poi di colpo, disattivando l’impulso elettrico, quello precipitava in caduta libera sulla pietra deposta sotto di esso, lasciando così una grande variabilità di combinazioni su come la pietra potesse essere colpita e in quale punto. In questo lavoro ero proprio interessato alla sorpresa, l’imprevedibilità e la singolarità del dispositivo (o macchina), mi offriva la visione di quella che definirei tranquillamente l’identità dell’oggetto.
Volevo paragonare la macchina ad un individuo, osservarla nel momento della sua azione che, in una certa misura, diventava autonoma. È vero che sono stato io ad accenderla, ma poi non potevo controllarla ed è qui che cadeva proprio la mia attenzione.
Il dispositivo è per natura imperfetto ed impreciso, durante l’esposizione è capitato più volte che il piombo non si sia sollevato o che nel cadere la corda a cui era legato s’infrenasse. Quest’imprevisti erano una sorpresa per me, erano in qualche modo un caos a cui io non potevo e non volevo portare ordine.
Ho impiegato quasi un anno nel perfezionamento della macchina, facendo molti tentativi per ottenere quello che stavo cercando concludendo, appunto, nel caos generato dell’autonomia di quest’opera.
F.P.: Anche le opere pittoriche, quindi le tele, presumo riassumano questi discorsi affrontati finora. Una ‘cancellazione’ di parte del lavoro (penso ad opere come: Monocane, oppure Policane). Ha senso quello che sto dicendo oppure sono solo mie speculazioni? In ogni caso, qualunque sia la risposta, mi piacerebbe entrare più a fondo nella questione.
J.N.: Certamente la radice della mia ricerca è invariata nelle diverse discipline che pratico, quindi sì, tutto quello che ci siamo detti è valido anche nella mia pittura. Quando dipingo non conosco l’esatta destinazione di quello che faccio, anche in questo caso le immagini si formano per addizione e sottrazione di segni. Molto spesso le tele sono il risultato di tante sovrapposizioni e cancellazioni, là dove le forme si frantumano certe volte appaiono soluzioni valide.
Tendenzialmente io lavoro in modo molto rapido, soprattutto in pittura, ma come hai detto anche tu nella domanda precedente, questa rapidità d’esecuzione è data da diversi tentativi fatti in precedenza.
Non premedito molto i gesti che compio sulla tela, perciò tante volte vengono cancellati, quelli che faccio sono più dei tentativi alla ricerca di un’immagine che mi convince. Nei due esempi che hai citato, “Moncone” e “Policane”, le figure sono il risultato di molto studio svolto attorno a questo soggetto partendo da riferimenti esterni e successivamente da disegni e sculture che ho realizzato, il tutto però si riversa sulla tela in un tempo molto breve, nonostante entrambe le tele siano di grande formato.
Ribadisco che l’elaborazione di tali immagini avviene durante la fase stessa della realizzazione, perciò tante volte ci sono risultati che non apprezzo e che scarto.
F.P.: La scultura come si risolve in tutto ciò? So che anche la poesia gioca un ruolo importante all’interno del tuo lavoro…
J.N.: ALT. Non penso si possa chiamare poesia i piccoli contributi scritti che inserisco nel mio lavoro, io li vedo piuttosto come pensieri o appunti che ritengo possano essere utili alla lettura di certe mie opere. Non scrivo mai molto e non ho un grande desiderio di descrivere quello che faccio, credo che le immagini dovrebbero innanzitutto esprimersi autonomamente, detto ciò non critico artisti che invece scrivono molto o che realizzano opere servendosi di contributi testuali, semplicemente non sento questa modalità molto vicina alla mia pratica, perciò i pensieri che accompagno ad alcune immagini sono talvolta sufficienti per me.
Parlando della scultura invece posso dirti che la sento tanto necessaria quanto la pittura, in alcuni periodi mi servo di essa per arrivare a dei risultati che in pittura non m’interesserebbero e viceversa.
Sono due attività diverse che però sto cercando di far dimorare in uno stesso luogo, come ho già detto la ricerca è sempre la stessa, con questi due medium investigo soggetti diversi. Della scultura mi attrae il carattere intrinseco dei materiali, si lavora a partire da molte informazioni che la materia stessa già possiede. Tutto questo in pittura ha una misura diversa, certo si sceglie la tela, il formato e l’imprimitura, ma poi sopra vi si realizza qualcosa da zero, lo stesso soggetto realizzato in pietra o in legno è sicuramente qualcos’altro.
F.P.: Ultima domanda (utopica): se avessi zero impedimenti dal punto di vista pratico, economico, spaziale… che cosa andresti a realizzare?
J.N.: Non voglio saperlo!