LAURA GUASTINI X VIRGINIA VALLE
Laura Guastini, nata a Pistoia nel 1994, dopo il triennio in Pittura alla Libera Accademia di Belle Arti di Firenze, ha proseguito gli studi a Bologna, frequentando il corso di Visual Arts con l’artista Luca Caccioni. La sua ricerca artistica ha come punti cardine la memoria, la poesia, l’uso dei tessuti e del ricamo e, più di recente, l’interesse per gli ecosistemi naturali. Per chi volesse approfondire il suo lavoro al di là di questa intervista, Laura esporrà le sue opere quest’autunno in una mostra negli spazi della Villa Comunale Pacini-Battaglia a Bientina (PI), curata di Rebecca Ardizzoni.
Virginia Valle: Hai affermato spesso che la tua ricerca artistica si articola in una serie di passaggi che seguono un percorso narrativo e che la poesia costituisce sovente la fase embrionale di un’opera. In che modo quest’ultima influenza il tuo lavoro?
Laura Guastini: Scrivere è il primo mezzo che mi spinge a un’espressione istintiva e non filtrata di quello che sento. Un primo atto indicativo per tenere traccia di storie, sensazioni ed incontri. Per la maggior parte sono poesie ma anche piccoli racconti. Due forme di scrittura che racchiudono
una forte intensità in poche righe, arrivano a un’essenzialità pura che riesce a esprimere con poco, tutto. Spesso da questi filari poetici proviene una carica emotiva che va a coincidere con un’immagine, una forma che prende spazio nella mia mente, per cui la scrittura diventa punto di
partenza e lascia spazio alla necessità di costruzione fisica.
Utilizzo spesso materiali diversi nel processo artistico, un po’ per la sperimentalità che contraddistingue il mio lavoro, ma anche perché materiali diversi rispondono a sensazioni diverse.
È molto importante per me ritrovare in ogni lavoro uno stato di fragilità che si concretizza in elementi delicati e succubi alla temporalità. Un senso di vulnerabilità che vedo riflesso in una società che con difficoltà riesce a collocarsi in armonia con l’ambiente che lei stessa ha costruito. Forse
per questo nel mio lavoro sento di voler tenere traccia, conservare, raccogliere, non lasciare andare, come una forma di resistenza.
V.V.: L’uso dei tessuti e del cucito è molto presente nella tua produzione. Com’è nato questo interesse?
L.G: Il mio primo approccio artistico è stato pittorico, ma già in quel momento sentivo una forte affinità con i panneggi e il modo in cui la materia tessile si poteva confondere con un paesaggio di vuoti e di pieni.
Questo è andato poi a confrontarsi più concretamente con il passato sartoriale della mia famiglia.
Il lascito di mio nonno, sarto di paese, sono state macchine da cucire, scampoli, tessuti, riviste, cartamodelli.
A partire proprio dai tessuti raccolti dalla mia famiglia, ho approfondito lo studio del tessile, con uno spirito protettivo ma anche di natura sociale. I tessuti raccolgono gli umori, proteggono, nascondono, inevitabilmente ci circondano, come abito da indossare, tende per nasconderci, tende per abitare e appartengono alla nostra quotidianità sin dalle origini della nostra
esplorazione del mondo. In questo senso è stato molto importante per me trascorrere un periodo di studi a Bruxelles, presso la classe di Arts Textiles dell’Académie Royale des Beaux – Arts in cui ho approfondito tecniche di tessitura come l’arazzo.
La superficie tessile descrive un po’ il senso della mia ricerca, il limite sottile tra interno ed esterno. Quel confine fragile tra io e altro, tra sotto e sopra, dentro e fuori.
V.V.: Nelle opere della serie Senza titolo (2017), in Il contatto (2017), Adieu mon amour e Isole (2018) o ancora, nella serie 3 Agosto, il giorno dopo. Il tempo di una storia (2019), il richiamo al corpo non è mai chiaramente visibile ma è tuttavia sempre presente. Il rimando ad esso, alla sua fisionomia o alla sua memoria emerge fortemente e cuce un fil rouge che si estende a molta parte della tua produzione. Ci racconti questi lavori?
L.G.: Questi lavori partono da un incontro fisico, parlano di luoghi e di persone. In Il contatto e Isole si è trattato di un’esplorazione del mio corpo, della mia pelle e del mio rapporto con quest’ultima come se fosse una pagina che già nasconde in sé, nelle sue pieghe e inesattezze, una
forma di racconto. È stata una perlustrazione della mia prima superficie di contatto col mondo, giungendo a una astrazione, da corpo a luogo.
Come in Isole, anche in Adieu mon amour si tratta di ricamo su carta fotografica: l’azione dell’ago che penetra una superficie non soffice rassomiglia a una ferita, a un gesto di prepotenza.
Queste cartoline dialogano con un rapporto scomparso e ritraggono quella parte del viaggio, dall’oblò dell’aereo in cui per la prima volta sei sopra le nuvole, non sotto, ma in quella soglia temporanea, indecisa e incompleta.
In 3 Agosto, il giorno dopo. Il tempo di una storia ho tentato di riattivare una gestualità che apparteneva alla pratica sartoriale di mio nonno, quella di riavvolgere gli scampoli di stoffa su se stessi per non scartare nessun avanzo del suo lavoro. Anche questo lavoro è stata la ricerca di un
contatto con una persona scomparsa. La stessa azione percorsa in tempi diversi da mani diverse ma svolta sugli stessi elementi. Le stratificazioni dei vari tessuti sono dunque stratificazioni temporali legate ad una gestualità, l’avvolgimento dei tessuti che diventa elemento di trasmissione e di comunicazione. Questi fagotti aprono riflessioni, mi ricordano piccoli neonati, assumono nella loro semplicità un confronto temporale e familiare profondo, di rinascita, a cui ho cercato di approcciarmi con piccoli ricami, stracci di poesie che percorrono i lavori dall’inizio alla fine.
Il filo rosso si insemina spesso in tutti questi lavori, sin dai primi di tintura naturale e ricamo.
Il rosso come colore ha una valenza importante: se chiudo gli occhi in faccia al Sole, è il primo colore che vedo. Il colore dell’interno. È l’altra faccia del nero.
V.V.: La superficie, sia essa uno straccio, un lenzuolo, della carta o la tua pelle, è ciò intorno cui ruota gran parte della tua produzione. Nell’ultimo anno questo tema si è combinato con un’altra riflessione, in qualche modo connessa alla prima: quella dell’abitare. Come si coniugano queste tematiche e quali lavori sono emersi da queste considerazioni?
L.G.: Casa, rifugio, tenda, sono costruzioni che compongono la superficie del nostro abitare. Ci circondano come un abito. Noi stessi viviamo sulla superficie di qualcosa di molto più profondo e antico di noi.
Queste riflessioni sono nate affascinata dal legame etimologico tra abito/abitare/abitudini. La stessa radice appartiene ai tessuti che indossiamo esattamente come alla casa che ci circonda e in cui troviamo rifugio, protezione, ma anche motivo di nasconderci e di costruzione delle nostre abitudini e identità. I tessuti di cui ci vestiamo o quelli che apponiamo alle finestre per custodire la nostra intimità sono oggetti-soglia, si posizionano in quello spazio intermedio tra corpo e ambiente. La casa, il rifugio, per me è un’estensione dell’abito, in quanto ci permette di
proteggerci dagli eventi climatici a noi avversi, a darci lo stesso senso di protezione e sicurezza ma anche a chiudere, limitare. Mi interessa molto questo rapporto: lo strato superficiale che divide, che talvolta diventa ostacolo ma che a volte può diventare forma di contatto tra interno ed
esterno.
Queste riflessioni si sono intensificate nell’ultimo anno, dove ho sentito la necessità di approfondire questo tema in risposta alla riscoperta di una forma di appartenenza al territorio e ai luoghi che vivo e percorro.
V.V.: Tra le tecniche che utilizzi maggiormente figura anche quella della tintura realizzata mediante oggetti naturali: fiori, foglie, radici ed erbe, che raccogli e utilizzi sui tessuti per operare alterazioni cromatiche. A quale necessità risponde questo processo di raccolta? Perché hai scelto di utilizzare proprio questi materiali per la tintura?
L.G.: Nell’antichità si credeva che il tessuto assorbisse il potere della pianta o della terra con cui veniva tinto. Indossarlo significava portare con sé la protezione o l’influenza di una natura o di un territorio. Tingendo con le piante estrai il loro cuore, la loro essenza e quando indossi il tessuto tinto, le porti con te; inevitabilmente si crea un legame, un’appartenenza tra luogo e uomo ed è questo che mi colpisce particolarmente di questa pratica. In parte per l’idea di preservare l’essenza di una magia, ma anche per il gesto, quello di raccolta. Come in Superficie calda di interno freddo, questo processo si è andato ad applicare su lenzuoli già vissuti. La posizione in cui li dispongo ricorda l’uso medievale di appore tessuti alle pareti casalinghe come protezione per l’umidità. Il tessuto si piega creando delle onde che circondano le stanze, come si può osservare nelle pitture medievali di interni. Questo tessuto è impregnato invece dell’umidità di successive
tinture e lavaggi per cui il colore originale e le sue imperfezioni dovute all’usura mutano.
Dalla posizione orizzontale del sonno acquistano una verticalità che li trasforma in superficie narrativa ed esplorativa: piccoli ricami solcano tutto il tessuto; quasi invisibili, vanno cercati, toccati, scoperti.
V.V.: Anche le opere delle serie Pelli, Something that never happened e Piccole case (2020) sono caratterizzate dall’impiego di materiali naturali, organici, frutto di processi di osservazione e raccolta in campi e boschi. Soggetti naturali che dialogano con oggetti artificiali creando combinazioni suggestive e inaspettate.
Come si è sviluppata questa recente attenzione per la natura?
L.G.: Camminare, osservare, fermarsi, raccogliere è diventata una pratica quotidiana. Vedere e toccare sono i due sensi che in primo luogo ci legano al mondo e raccogliere è il primo atto che ha trasformato questo legame in una relazione con l’ambiente. È ciò che lega l’uomo alla terra nella costruzione del suo abitare in uno scambio che inevitabilmente produce relazione e senso di appartenenza. Un po’ come da bambini, quando si riempiono scatole e scaffali di piccoli oggetti raccolti che per un momento ci hanno attratto e assumono una qualità che ci convince a regalare loro uno spazio prezioso nel nostro luogo abitato. Forse con la stessa ingenuità, camminando, vengo attratta da forme, colori, sensazioni. Ma raccogliere significa anche “mettere insieme”: ciò che raccolgo si lega a sostegno di forme diverse e a costruzione di un percorso narrativo, intimo, poetico, l’inizio di una nuova storia.
V.V.: Per chi volesse approfondire il tuo lavoro, hai mostre in programma nei prossimi mesi?
L.G.: In autunno con Miriam Del Seppia e Angela Grigolato, abbiamo in programma una mostra presso gli spazi della Villa Comunale Pacini Battaglia di Bientina gestita da Parco 793 e a cura di Rebecca Ardizzoni. La mostra si lega al territorio pisano, esplorato in questi mesi, che ci ha portate all’interno di paesaggi molto diversi. Da questi ambienti abbiamo raccolto materiali e suggestioni che immediatamente si sono associate agli spazi della Villa, luogo espositivo ma che si colloca ancora come ricordo di una casa un tempo abitata.
In questi ultimi mesi abbiamo riflettuto sul modo di relazionarci all’ambiente che ci circonda sentendo la necessità di inventare nuove forme dell’abitare. L’osservazione degli ecosistemi vegetali ed animali, ci ha spinto a cercare un’integrazione tra interno ed esterno, a immaginare la casa come luogo che trova ragione d’essere nello scambio tra dentro e fuori, io e altro.