FEDERICO PALUMBO X UMBERTO CHIODI
“In una civiltà come la nostra, in cui esiste una solitudine quantitativa e una falsa socialità delle città, il recupero di un proprio spazio individuale, di azione corporale e riflessiva, è il primo momento del processo di liberazione. La libertà è il conseguimento di una peculiarità di posizione che appartiene al soggetto e che egli solvato può muovere. Visto che[…] i sogni provengono dal mondo, l’artista realizza un proprio spazio onirico nel senso che presenta e concretizza un’associazione di materiali e di gesti che trovano la propria motivazione solamente nell’immaginazione personale di esso”.1
L’artista ha il potere primordiale del Dio. Egli, adottando l’arroganza del fare come primo diktat vitale, predispone quello che per lui è il mondo. Non la verosimiglianza con esso, ovviamente. Non avrebbe senso. Piuttosto ciò che egli vorrebbe che sia. O quello che è, ma per lui. All’interno del proprio essere. Le parole in apertura di Achille Bonito Oliva prese da quello che considero come la Bibbia dell’arte contemporanea, Il Territorio Magico, paiono come un fulmine a ciel sereno. La mostra personale di Umberto Chiodi risponde esattamente a queste leggi psico-fisiche che l’artista ha impostato all’interno dello spazio espositivo facendole sembrare scritte per questo progetto specifico.
L’arte, e ci credo fortemente in questo, ha il potere di ricreare mondi altri, diversi dal nostro, e di catapultarci all’interno di essi. Fuori, lungo via Carena, scorre la vita cocciutamente fissata all’interno dei rigidi schemi di ciò che intendiamo come storicismo. Dentro, invece, siamo altrove. E qui, dentro questo mondo – che è lo spazio in sé – seguiamo tutt’altre leggi.
La dimensione temporale è rigida, ferma, perché bloccata nel circolo, ma poeticamente fluida. Lo spazio, a sua volta, è allargato a dismisura fino ad essere punto unico e, nel medesimo istante, su più punti di quello stesso circolo che citavo poco prima.
L’artista realizza il proprio spazio onirico: animali fantastici-paranoici escono dalla presa elettrica, decretando il punto dal quale è avvenuto il corto circuito con il nostro mondo e grazie al quale sono potuti emergere, dirottandosi verso l’uscita che dà su via Carena. La doppia natura che li connatura è la classica struttura che solitamente compone la narrazione onirica. Fantasia tagliente che ci cattura ma che, nel medesimo istante, pare stritolarci: come lo valutiamo il gesto, abbraccio o tentata asfissia?
I vari livelli di lettura permettono al fruitore di riconoscere piano piano tutti gli animali sulle pareti: quelli gialli probabilmente arrivano per ultimi. I primi a catturarci sono sicuramente i segni, come se ci trovassimo all’interno di una caverna. Sempre dalle prese elettriche ecco sbucare ibridi e antropomorfi assemblaggi, i quali riprendono con cura l’andamento ritratto sulle pareti.
Siamo al buio ma ciò che illumina parzialmente lo spazio sono gli stessi assemblaggi che si ergono a uniche fonti luminose, rendendo il tutto estremamente intimo. Flash criptici neuronali che illuminano i vari episodi da cui è composto il nostro sogno notturno.
L’avvento dell’opera a parete e la sua costruzione è opera stessa, in sé, che risponde anch’essa alle esigenze dell’artista: In una civiltà come la nostra, in cui esiste una solitudine quantitativa e una falsa socialità delle città, il recupero di un proprio spazio individuale, di azione corporale e riflessiva, è il primo momento del processo di liberazione.
Termini come ‘libertà’ oppure ‘processo di liberazione’ possono trarci in inganno. Qui, noi, li intendiamo nel senso ampio del termine, così come nel piccolo. L’artista è fuori dagli schemi e lavora un po’ come gli pare. Fuori dalla produzione utilitaristica. E non è dunque solamente libero, ma sé stesso. Non segue il processo di liberazione e basta, ma la sua volontà creatrice ed espressiva. La nostra civiltà, allora, si insinua fra le pieghe del mondo. Quello stesso mondo che è lontano dalla processualità piena dell’essere umano. E allora l’artista se ne fa carico. Non lo rimodella dall’interno o dall’esterno, ma fa altro. Semplicemente e beatamente.
Una volta l’arte era radicata all’interno della società. Ora si pone su di una linea laterale. Non la supporta né sopporta. E allora è di troppo. Ecco da dove nasce l’esigenza di un proprio ritaglio individuale e personale extra-civile a partire, però, dalla conoscenza dello stesso.
Se i sogni provengono dal mondo, l’artista realizza un proprio spazio onirico nel senso che presenta e concretizza un’associazione di materiali e di gesti che trovano la propria motivazione solamente nell’immaginazione personale di esso: il performer è la vera figura straniante su questo palcoscenico. Proprio come noi, che ci addentriamo nello spazio. Nuovamente come in un sogno. Spesso, quando sogniamo, noi siamo i protagonisti non tanto tramite i gesti che eseguiamo; quelli li compiono gli altri. Noi ci apparteniamo nella misura in cui le nostre emozioni si esprimono dopo uno stimolo scenico e narrativo.
Eccoci…
Luca Tomasoni e Matteo Levaggi – rispettivamente performer e scenografo – seguono ritmi vitali che alimentano quel senso di sparizione dal nostro mondo e quella volontà di riconciliazione con questo mondo. Siamo noi, e loro, ad essere catapultati al di fuori, verso il dentro. Gli animali ci corrono ai lati e gli assemblaggi ricreano un’habitat non ostile, semplicemente alieno: “Nel tempo della magia il corpo è al servizio dell’anima o del mondo degli spiriti”.2
Umberto Chiodi ha messo in scena il suo Territorio Magico dell’arte. Noi ne siamo stati spettatori. Il nostro corpo è stato al servizio degli spiriti, della magia e, più apertamente, dell’arte. Qualcuno è tornato, qualcuno è ancora lì… e lo sarà per molto tempo. Forse per sempre.
Oltre l’arcobaleno, un altro arcobaleno; eppure circolare… in piena notte.
Foto di Alex G. Iosub © Osservatorio Futura
- A. Bonito Oliva (a cura di) S. Chiodi, Il Territorio Magico. Comportamenti alternativi nell’arte, Casa Editrice Le Lettere, Firenze (2009), p. 50.
2. ivi, p. 62.