FEDERICO CAPUTO X FEDERICO PALUMBO
Federico Caputo (Sanremo, 1995) è un artista che vive e lavora a Torino. La sua ricerca è improntata sul prelievo delle icone popolari con le quali, quotidianamente, entriamo in qualche modo in contatto. Questo prelievo si muove su vari livelli d’interesse: dal volto di un personaggio politico (penso all’opera ‘dedicata’ a Craxi), alle sculture soffici raffiguranti pacchi di patatine San carlo o, ancora, ai loghi di brand famosi come la FILA. Una volta avvenuta la scelta, sempre dettata da una nostalgia implicita-esplicita, Caputo inizia a fissarli sulla tela o a realizzarli tridimensionalmente, cucendoli servendosi della lana e creando un affascinante cortocircuito estetico. Il ritmo ossessivo con cui queste icone si palesano ai nostri occhi (e alla nostra mente) si scontra con il processo lento e pensieroso dell’arte del ricamo.
A Caputo abbiamo chiesto di realizzare la copertina del numero di ottobre, che inaugura oggi, calcando su quell’estetica spaziale alla quale ci siamo ispirati per dare il nome al nostro progetto, ‘Futura’, lo stesso della prima missione spaziale cui ha preso parte Samantha Cristoforetti — ed ecco spiegata la presenza dell’astronauta italiana. Ne è nata una copertina che può muoversi su diversi giochi visivi e concettuali.
La chiacchierata che segue, infine, cerca di toccare i punti nevralgici del lavoro dell’artista, offrendo così una panoramica quanto più globale possibile, in grado di analizzare il suo pensiero.
Tra le mostre da ricordare alle quali Caputo ha partecipato, ci sono: Dark fantasy, Comodo64 (Torino, 2017); The Store, Kspace (Torino, 2018); A.F.È.U.F.S.L.D.U.T.S.N., GFS Contemporary Art (Torino, 2019); Useless Objects, Associazione Barriera (Torino, 2019); Unforgattable childhood, Polo 900 – Museo Carlo Bilotti (Torino – Roma, 2019/20).
Federico Palumbo: Alastair Sooke nel suo testo ‘POP ART. Una storia a colori’ mette in luce un elemento secondo me fondamentale per comprendere la nostra fascinazione nei confronti degli oggetti e delle icone pop: la nostalgia. Lo stesso Andy Warhol, ad esempio, spesso raccontava di quando la madre gli preparava la zuppa Campbell. Ecco, credo che questo aspetto sia utile anche per meglio comprendere il tuo lavoro.
Federico Caputo: La nostalgia è l’ossatura dei miei lavori. Dietro a ogni mio logo, viso e oggetto che raffiguro, c’è un ricordo, una circostanza, una storia che mi riporta a un un preciso e determinante momento della mia vita. Processo che si vede in particolare nella mia prima serie di quadri, esposti poi in un secondo momento al Kspaces di Victor Kastelic un paio di anni fa. Quadri di piccole dimensioni che raffiguravano prodotti del supermercato. Prodotti gioiosi come le patatine “san carlo” o i sofficini al formaggio “findus”, che fanno riaffiorare nella mia mente momenti della mia infanzia quando mia madre, tornata dal lavoro, mi preparava nel microonde i sofficini.
FP: Abbiamo citato la pop art. Indubbiamente, guardando i tuoi lavori spesso si finisce per parlare proprio di questo, in particolare di Claes Oldenburg. Quanto effettivamente pensi sia calzante questo parallelo con il tuo lavoro? Ti senti vicino a qualche ‘maestro’?
FC: Sinceramente no, non mi sento vicino a nessun “maestro”, certi giganti della pop art, in particolare Claes Oldenburg, li ho amati e imitati, ma come diceva Radiguet Raymond: ‘bisogna provare a imitare i capolavori ed è nella misura in cui non ci si riesce, che si diventa originali.’
FP: Qual è stata la tua formazione accademica e quanto ha influito nel tuo percorso artistico?
FC: Ho conseguito la triennale di pittura all’Accademia Albertina di Torino, e penso che come scuola abbia influito inevitabilmente molto sul mio processo artistico, in particolare per gli stimoli ricevuti oltre che da certi professori, dai compagni di corso.
FP: Mi piace molto il “cortocircuito” che viene a crearsi nel tuo lavoro (se così può essere inteso): l’arte del ricamo, che ha in qualche modo un tempo di realizzazione più lento, quasi sacrale, rispetto alla voracità della diffusione delle immagini contemporanee che tu scegli; e appunto le ‘icone’ quotidiane e popolari. Ci spieghi che cosa ti ha portato a scegliere questa tecnica?
FC: La scelta del ricamo, come tecnica è nata in maniera spontanea, è stato un processo ascendente. Dopo essermi allontanato dal colore acrilico, che è stata per un certo periodo la mia tecnica, iniziai a ricamare producendo piccole opere con filo di cotone, provando vari punti (tratto punto, punto croce, punto catenella) su lenzuoli di casa o tele aida trovati in cantina di mia nonna, per poi passare in un secondo momento alla lana.
Come dici tu si è creato un paradosso nelle mie opere, poiché cucio immagini popolari, frutto di una società che si muove a ritmo serrato con una tecnica lenta e antica. Penso che sia proprio questo il mio obiettivo da un punto di vista formale, riuscire a fondere il bombardamento di immagini, che ricevevo fin dall’infanzia dal mondo esterno, con l’accuratezza e precisione con cui vedevo realizzare i lavori a cucito in casa sia da mia madre che da mia nonna.
FP: Un aspetto interessante è sicuramente l’alone cool che riesci a dare alle icone da te scelte rendendole opere d’arte. Parli spesso infatti del ready-made duchampiano; mi piacerebbe però approfondire con te le tue modalità di lavoro. Come scegli le immagini dal contesto popolare e quante dinamiche “esterne” influiscono in questa scelta: moda, musica, cultura visuale…
FC: Nella mia ricerca artistica sono costantemente influenzato dalle immagini, che possono essere un cartellone pubblicitario con un bel viso di una ragazza, che vedo passeggiando tornando a casa dopo aver fatto serata oppure una foto su instagram.
Ascolto musica tutto il giorno, in particolare sono affascinato dall’immaginario della musica Urban, e di tutto ciò che ne deriva: videoclip, visual e stile che sono stati spesso per me fonti di ispirazione. Così come lo sono certe inquadrature di film che guardo con ossessione. Non mi è mai capitato di essere ispirato dal mondo della moda forse perché ho sempre considerato la moda come una conseguenza dell’arte.
Soprattutto quei marchi che hanno come obiettivo principale la produzione seriale, potrei eventualmente trovare una qualche ispirazione da Walter Van Beirendonck o da Bonotto.
FP: Nel 2019 partecipavi alla mostra Useless object a cura di Carolina Ellen Liou presso Associazione Barriera. Insieme agli artisti Paolo Cirio e Anna Canale indagavate il processo che conferisce a un oggetto lo status di opera d’arte. Com’è da te vissuto il mondo dell’arte? Quali problematiche pensi ci siano all’interno del cosiddetto ‘sistema’ che interferiscono con la carriera dell’artista emergente?
FC: Il problema di fondo è una eccessiva esterofilia che si può trovare in Italia, in tutti i settori. In particolare, il problema principale delle gallerie italiane, penso sia la poca considerazione nei confronti degli artisti emergenti italiani, e il dare il troppo credito agli artisti esteri. Un’altra problematica è il forte ancoraggio da parte delle istituzioni artistiche nei confronti di certi movimenti, come per esempio l’Arte Povera, in modo particolare qua a Torino, dove mi pare ci sia una particolare resistenza all’emersione di nuovi movimenti.
FP: La tua produzione è molto variegata: dai Frames alle Cover Magazine; dalle Soft Sculpture ai Food Works fino ai Glitter Logos e i Logo. Ci parli un po’ di queste serie, come sono nate e a quali, tra queste, sei più affezionato?
FC: Ogni serie che faccio nasce con l’esigenza di avere un ordine.
Appena vedo che un quadro ha una buona tensione formale ne faccio altri simili. I primi lavori che ho realizzato con il filo di lana su tela, sono stati quelli della serie FOOD WORK che, come ho detto precedentemente, erano quadri di piccole dimensioni ove raffiguravo tutti i prodotti del supermercato che consumavo da bambino. Essendo la prima serie realizzata con l’ausilio della lana ci sono molto affezionato.
Successivamente ai FOOD WORK, mi sono concentrato più sul logo che sul prodotto e ho quindi realizzato i LOGO e i GLITTER LOGO, due cicli di quadri, rispettivamente in filo di lana su tela e ghirlande natalizie colorate su tela ispirandomi ai “Bachi da Setola” di Pino Pascali. La serie LOGO è uno spin-off di FOOD WORK, dato che la maggior parte dei loghi che ho raffigurato sono loghi di supermercati o di marche alimentari; GLITTER LOGO invece è una ricerca inedita che devo ancora sviluppare del tutto.
COVER MAGAZINE è una serie di copertine che ho realizzato nuovamente con filo di lana su tela e che ho iniziato a sviluppare nell’estate del 2018, poiché in vacanza, annoiato dal mare, mi leggevo i vari CHI, OGGI, VERO ecc. comprati dalla mia ex ragazza.
FRAMES è la serie più recente nata in seguito a un lavoro su commissione, ove dovevo raffigurare un viso di un attore con l’ausilio della lana; fino a quel momento avevo sempre fatto loghi o oggetti e non mi ero cimentato mai nella realizzazione di visi, per paura che lana facesse un filtro troppo incomprensibile. Invece il quadro riuscì formalmente bene e perciò iniziai una serie di primi piani di persone famose, fantasmi politici e scene di film.
SOFT SCULPTURE è una serie di peluche di varie dimensioni, dove ho trasportato un mio immaginario fanciullesco dal bidimensionale al tridimensionale, questo anche dopo essermi innamorato delle installazioni di peluche di Mike Kelley.
FP: Una delle tue ultime esposizioni si sta svolgendo presso il Museo Ebraico di Lecce. Ci racconti questa esperienza?
FC: Certo. “I fili della storia” al Museo Ebraico di Lecce, in collaborazione con Margherita Grasselli a cura di Ermanno Tedeschi è una mostra coraggiosa. All’interno della sala espositiva del museo ho esposto una decina di quadri ricamati con filo di lana su tela, tutti a tema ebraico. Questa esperienza mi ha consentito di conoscere una cultura che ho trovato particolarmente affascinante e ricca di fonti d’ispirazione. La mostra che si è inaugurata il 6 settembre scorso, rimarrà aperta al pubblico fino al 7 febbraio 2021.
FP: Hai progetti per il futuro? Puoi spoilerarci qualcosa?
FC: Sto lavorando a un bel progetto sulla città di Biella, in rapporto ai lanifici e le aziende tessili storiche del territorio, ma per ora è tutto ancora in fase embrionale.
FP: Avviandomi alla fine della chiacchierata, mi piace sempre fare questa domanda agli artisti che intervisto, forse atteggiandomi un po’ troppo alla Obrist. Hai un’idea apparentemente irrealizzabile e utopica? Se avessi la possibilità di scegliere uno spazio qualunque a tua scelta e non avessi restrizioni economiche, che cosa realizzeresti?
FC: Mi piacerebbe creare un acquario di grandi dimensioni, con ogni specie di pesce fatti tutti in tessuto, all’interno dell’Acquario di Genova.
FP: Per concludere: hai realizzato la seconda copertina per Osservatorio Futura… Raccontacela un po’.
FC: Per la copertina di Osservatorio Futura ho realizzato un’opera inedita in filo di lana su tela, raffigurante un’ipotetica copertina della rivista CHI (giornale di gossip), dedicata all’astronauta Samantha Cristoforetti, provando a contaminare l’immagine seria e quasi istituzionale dell’astronauta con il mondo del trash.