ALESSIO MOITRE
Chi vorremo essere è un passo determinante della curva di apprendimento nella direzione dell’anno in corso. Per una fetta della popolazione basterà rimpastare i nuovi ingredienti con il composto delle abitudini mantenuto in dispensa pazientemente, ottenendone una pietanza non equilibrata ma mangerina. Il palato si adeguerà di conseguenza anche nelle scantonate verso l’amarotico. Per l’intellettuale o il pensatore du jour, il processo altresì presenta insidiose complicanze determinate dall’adulterazione ingenerata dalla psicologia, materia soppesata ma sopportata perlopiù, accantonata nei mesi burrascosi della prima ondata ed ora richiesta al centro del campo, come un attempato giocatore inadatto al ritmo partita ma buono per sortite. Le emozioni ce le siamo giocate fabbricandoci privati momenti di felicità. Mai manifestate con eccessiva veemenza. In pubblico ancora ci si giudica, assegnandoci categorie dettate dal grado di apprensione per il virus, una mascherina, un vaccino. Ma il sistema nervoso diroccia, lo fa in muscoli tesi, in mal di testa, in nottate insonni. Più ancora ora la psicologia andrebbe irrobustita. A squadre di medici dovrebbero corrispondere pattuglie di conoscitori della psiche perché l’ammaccatura della carrozzeria si è trasformata in uno squarcio tanto consistente quanto invisibile. L’intangibile, siamo nuovamente al cospetto di una presenza numinosa ma predace, che ci ha fatto convocare all’inizio degli anni venti del nuovo millennio. Non è almeno tematica religiosa (la desacralizzazione dell’Europa è carsica ma tenace, azzarderei irreversibile in ampie fette della popolazione), ma con essa condivide l’immaterialità che ci spaventa il giusto, facendoci diguazzare in timori ancestrali, quasi antelucani. Uomini alla valutazione dei propri timori. Alcuni soppesati si rivelano passerotti nel centro dell’inverno. Ma non tutti i pennuti sono uguali, nemmeno i più minuti. Le cinciallegre paiono dal loro nome rallegrarci, sino a quando l’esigenza non ne amplia l’indole. Come è ormai noto da diversi studi, questi eleganti volatili, se costretti dalla fame diventato implacabili cacciatori. A tal punto da essere in grado di dirigersi verso le grotte a cercar pipistrelli dormienti, stanarli e divorarli, prediligendone il cervello, ricca riserva di grassi. In questi mesi mi domando quante cinciallegre abbiamo allevato contro i chirotteri (altro nome dei pipistrelli) che in natura hanno nessuna colpa, se non una certa belluria, ma come emblema delle paure sanno travestirsi mirabilmente. L’inverno è per strada ed ha rafforzato l’impoverimento culturale di cui siamo corresponsabili, le chiusure di musei, cinema, gallerie, teatri, associazioni, punti di convivialità ha limitato la circolazione del virus come delle conoscenze. Ammenda che è stata anche combinata agli artisti, mai molto cari nelle premure governative ma genericamente stigmatizzati da un’ampia fronda dell’opinione pubblica. L’arte ha un qualità: rendere in materia ciò che è indefinito. Se ne potrebbe accostare un termine letterario: ipostatizzare, rendere concreto, personificare ciò che è astratto o ideale. Dare carne alle emozioni, sviscerando il sentimento d’inadeguatezza e d’impotenza che blocca i nervi. Metodologia assai complessa per un creativo esperto ma equanime nelle possibilità, dunque appetibile nella medesima misura anche per un giovane. Non riesco, limitato come sono, a costruirmi uno scenario nella complessa psiche di un liceale o di un impubere anche se scodo tra la perplessità dei tempi e il timore delle conseguenze impietose delle costrizioni prolungate (con un moggio di disillusione per l’insegnamento impoverito di maestri). I prossimi dieci anni, al pari di una pesa, ci forniranno una misura. Lo stesso varrà per i novelli dell’arte ma con l’aggravante della premeditazione. La riprogettazione creativa coadiuvata dall’anno trascorso sarebbe dovuto essere il companatico essenziale. Eh sì il lavoro, gli affanni, gli acciacchi: un carname, ma l’artista ne fa spunti. Il tavolaccio delle scuse si amplia ogni giorno di un listello. A che arte dovremmo abituarci? Quale arte i giovani artisti possono fornire? Febbraio scorso, ultimo avamposto dell’epoca definita della “normalità”, è a meno di un anno, troppo poco per abbandonare le abitudini, struggendosi nel languido ricordo dell’esistenza senza limitazioni. E nello stesso calore rivolere l’accaduto, compreso di storture perché in fondo, occhieggiate ora appaiono dispetti del vivere. Dunque largo, appena il canapo cadrà, a nomi noti e di sicura attrattiva perché il mercato lo richiede, il collezionista lo cerca ed il furtivo osservatore conosce una manciata di cognomi. Allegria crescente per una ritrovata sventatezza. Venti e trentenni (sui quarantenni non possiamo ancora affidargli la balia) in caccia di possibilità. Come prima oppure mi son sbagliato? Da quel che si è appreso (e lasciamo perdere l’essenziale e l’inessenziale, quando mai l’arte ha avuto uno scranno nell’emiciclo sociale) gli artisti, già diafani in tempi di pace, si sono amalgamati alla buona nel campo del web, proponendo mostre virtuali, incontri virtuali, interviste virtuali ma villanamente posso asseverare che erano già poco presenti in “presenza” in precedenza (giochetto di parole!) tanto da non aver fatto versare pensieri se non ad una combriccola di abitudinari frequentatori. Si deve riformar comunità! Lo sento recitare persino in falsetto ma già in estate c’era la dispersione. Dei buoni propositi ci ride su la costanza. L’educazione al futuro ci è sconosciuta, la materia è stata declassificata già in famiglia, per essere oggetto oggi di traduzione complessa. In sostanza: il pensare al domani progettualmente, in forma privata e pubblica. Se qualcuno leggendo sostenesse di non vederne un nesso, mi basterebbe ricordargli la produzione artistica dei giovani creativi, castrata e poi adeguata al secondo esistenziale. Perché il punto su cui mi avviticchio è la sfrontatezza che dimostreremo nell’affrontare il domani. Saremo cauti? Calcolatori? Timorosi, peggio pavidi? Male, male, male oltre ogni termine. Non è questione di rivolte, il punto è l’esporsi, essere il proprio tempo. Lumeggiare le persone nella post pandemia renderà difficile valutarle come fatto in precedenza. Diversi parametri saranno mutati. Le emozioni rimbomberanno. Le persone che avranno vissuto la pandemia lentamente calibreranno gli occhi. Il pensiero si svilupperà di conseguenza. Agli artisti non dovrà bastare il tran tran quotidiano, dovranno riprogrammarlo. Le sfide per i venti – trentenni che vogliono armeggiare con le arti visuali è torbido ma di affascinante incertezza. Un secolo (cinese, per gli esperti, accelerato dagli accadimenti) che ci vedrà barricadiero. Dovremmo decidere che cosa vorremmo essere. Valori, idee, società (anche in Europa, al cospetto degli altri stati). Molto alta sarà la puntata : riscrivere (magari in italiano scorrevole, senza snobismo ma consapevolmente) il valore degli italiani. Esagero? Non è anche compito dell’arte? Ne convengo. Il Bel paese nel contemporaneo creativo è un escrescenza. Imponderabile schierarla come forza motrice. C’è da travagliare insomma basandosi sul sestante della qualità, permettendo al paese intero di evidenziarsi in un contesto mondiale contraddistinto da colossi. Le sinapsi vanno frustate. Risorse intellettuali giungono dai licei. La pacciamatura deve aver prodotto un buon composto, il terreno profuma e le barbatelle sono state impiantate anche nei mesi infausti. Vanno seguite, da sole non si tramutano in prodotto. Negli studi, come nei laboratori, nei sottotetti alla pari degli stambugi, dev’essere forgiato il nuovo tempo, escludendo il limite che vorrebbe i lavoratori di pensiero foglie ormai accartocciate, buone per far scrocchiare le suole del progresso.
Un saluto a tutti e statemi bene
Alessio
Ps: Intenti per i lettori: ricercare e informarsi sulle cinciallegre.