GRUPPI, GRUPPETTI, GRUPPETTINI, SINO ALLA RISATA

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ALESSIO MOITRE

Mi infliggo da diverso tempo, causa curiosità, un interesse. Lo subisco perché al termine della condanna, non ne traggo giovamento. Se non uno spaccato antropologico. Ma è parimenti intrigante farsi fesseggiare da un pensiero che hai sguinzagliato nella convinzione della sua sottomissione. Il mio incedere ha a che fare con gli agglomerati d’artisti. Principiano come una combriccola, similare ad una fragaglia, per mutarsi in schieramenti identificabili nella maggior parte dei casi con il capobranco, apripista scacciabufali nel parterre creativo cittadino. Si rimane metropolitani. Questa è una componente implicita. Gli ambagi e le viuzze bastano a sfrangiarne le aspettative e a sminuzzarli in gruppetti ancor meno folti. Ma in origine basta l’entusiasmo ed allora si compattano o per i meno scaltri, vengono aspirati dal nucleo centrale. Mai si sorpassa la decina. Tessere e saldare gruppi è una specializzazione solitamente incline a uomini e donne di età maggiore. Qui stiamo al ritmo dei ventenni (quasi tutti zoomers). Il paradigma impone un luogo di ritrovo. Studio approdo ideale ma sondabili anche stambugi di fortuna. Nell’abbrivio (che sia corto però) difettucoli vengono scavalcati, sino quantomeno all’affermazione pubblica. Ci si manifesta organizzati, inclini alla sperimentazione, se dovesse occorrere, prevaricanti. Di tali avamposti è zeppa la cartina. Studioli come torri nobiliari attestanti il grado ottenuto. Una riproposizione tre – quattrocentesca della simbologia politico/economica nei comuni italiani. Da qui, la lotta è dichiarata. Forse è il passaggio eupeptico di maggior acquolina. E c’è poco da indugiare nel selezionar termini forbiti, è la fase definibile “dello sputtanamento”. Le lingue biforcute operano in campo aperto. Affossare la concorrenza è questione di sentito dire, con frasette o presunti sgarbi, mostre marcescenti, favori ottenuti, favori negati. La collaborazione è altissimo segno di debolezza. Da negarsi senza ripensamenti. Affiliarsi invece ad artista di maggiore età, con pedigree di razza, è cosa saggia. Il protettorato porta onori e soprattutto fa intendere anche le orecchie di granito. Difficile che le nuove leve si riconoscano in una galleria, tanto meno che la loro unicità venga filtrata da essa. Sfruculiare il mercato è un operazione corroborante per la fama, meglio farlo tra un pezzo venduto in nero e una serie di leggende. Alcuni gruppi sono assai curiosi e mi ci soffermo. “I compagnoni”, così li identifico, sono una categoria assai nutrita. Amalgamatisi nelle Accademie italiane al sentor di liceo, propendono per proseguire l’esperienza contratta nelle aule. Sono i meno attrezzati e godono in fondo di una salutare sindrome da arte. Ottimisti, scanzonati nelle uscite. Sanno collaborare e si aprono alle diverse influenze. Si fondano su una giovialità adolescenziale che argina ben poco le prime batoste. Si riducono, nel lasso di una stagione, ad esser dimidiati. Chi traina se ne andrà, formando un suo gruppo, chi gozzoviglia cambierà strada. Logico, alla fine. “Gli studioli”. Non sono una corporazione. Per caso e alle volte per fortuna, si sono ritrovati adottati da uno spazio. Collaborano ma le idiosincrasie si celano in successi, spesso individuali, e ritardi nei pagamenti della quota di affitto dell’atelier. I più si squagliano o ricompattano la creta appena il gruppo muta. Raramente si sfocia in scontri interni e praticamente mai esterni. Paiono parcheggiati, rincantucciati in comparsate. “Il gruppo del leader”. Il più guerrafondaio e isolazionista. Si è consolidato su un sogno di propaganda. Rispecchiante la volontà del capo, ha incorporato artistelli di dubbio talento ma coadiuvanti la visione del rappresentante. Programmati per una febbrile carriera, sono artisti in concetto prima ancora che in pratica e ne ricalcano la mistica necessaria per farsene investire. Sanno ricamarsi un’esclusività che rilasciano a gocce. Hanno frequentazioni mirate ed un apparato concettuale massivo dei propri lavori. Parlano a puntate. Li devi un po’ interpretare. Interessante è un anomalia: l’innalzamento di un sottoposto per merito ottenuto. L’implosione è una scissione inevitabile. In ultima, per non annoiare nella compilazione, “gli scartati”, a cui l’umana comprensione sovente eccede nericando i demeriti lavorativi. Brandelli di precedenti tentativi, sembrano ritrovarsi nella rivalsa. Purtroppo di rado il compattamento avviene per evoluzione creativa. Curiosamente più facilmente affiliabili a gallerie, si destreggiano, mai negandosi nemmeno in progetti audaci. Hanno durata maggiore dei precedenti gruppi ma è inevitabile che scontino una pochezza artistica causa principale dei loro affanni. Ma giunto fin qui, ho forse dato l’impressione che l’interconnessione tra i gruppi (anche i non “battezzati”), i cani sciolti ed il resto del settore non vi sia. Errato. Avviene in una struttura assai curiosa. Riviste, libri d’artista, piccole tirature editoriali, gioiellini cartacei vengono ideati e prodotti a ritmi sorprendenti, vanificando l’idea stereotipata di un mondo improduttivo e lezioso. Ma i tesori ottenuti galleggiano nel mare interno, costruendo un’economia chiusa. Gruppi si intervistano tra gruppi. È un individualismo edonistico ben celato, acquattato sotto frasche comode, salottiere persino nonostante il rimbombo di presunte spire indipendentiste. Un circuito appartato e che di esso se ne fa forza, per rinforzare, a differenti gradi, la grande carpa in un piccolo stagno. L’individualismo, geneticamente presente nell’uomo contemporaneo, è il patogeno che vanifica la fuoriuscita di talenti dalla pozza d’acqua in cui si sono sviluppati. Con un aggiunta del batterio del sospetto, endemico nelle trattazioni sociali. Posso affermare di aver visto molto talento dissipato. Per alcuni sarebbe d’uopo aprire un’istruttoria per comprenderne le cause recondite. Paure, indecisione, incostanza, perdita d’interesse, cambio di vita, imprevisti e a riempire il foglio ci metterei uno schiocco. I gruppi ricamati di buone intenzioni e qualcuno di gemme grezze, si spaccano per incapacità di autocoscienza. La valutazione del loro operare è autoreferenziale, intontiti dal bottino ottenibile in base alle mosse. Che sia d’immagine o di compenso. La strategia ha assunto l’incarico al posto dell’introspezione, designata a far la preziosa in pratiche meditative o di conoscenza interiore. L’ideologia ha smesso di produrre collante. Il risultato è un guizzare nevrile di istinti, che come loro biologia, si sfocano a corto raggio. L’artista ha l’assillo del posizionamento settoriale, spesso avventurandosi in una sovrapproduzione ammaccante. Un gruppo stordito dalle esigenze (più che dalle umane necessità) è più debole, indirizzato alla creazione di opere suggestionabili dunque infragilite dal contesto vissuto. Non vi è da stupirsi, dopo tale premessa, come realtà associative formate da componenti di maggiore età, abbiano avuto un più largo successo. La “banale” esperienza ma soprattutto una soppesazione del proprio lavoro tarando la pesa su parametri differenti. Di certo non vi sono equazioni salvifiche. La “linea di massima” rimane un incedere adeguato. Ma è evidente trepestando le strade delle città italiane, come l’insorgere di studi, atelier, associazioni corrisponda raramente ad una evidenza intellettuale valida per il mondo. La staccionata limita i rischi allontanando gli interessati, il che curiosamente mi alimenta il ricordo di un uomo malato, appena ritornato da Harar, che nel viaggio verso Marsiglia, fermo in una stazione, a detta della sorella che ne riferì il fatto, osservando dal finestrino di un orticello decoroso e fiorito curato da un capostazione, proruppe in una risata rumorosa, indecente, sarcastica e irrefrenabile. Era il 1891 o giù di lì. Modificare il mondo delimitando il cambiamento, mentre attorno il meschino avanzava. Una chiazza di piacevolezza recintata. Per alcuni studiosi è stata la prima risata del ventesimo secolo, che ad onda d’urto sconquassò l’ultimo tratto del millennio riconvertendolo più volte. A prorompere rumorosamente fu Arthur Rimbaud ed il suo sbellicarsi ogni tanto mi pare d’avvertirlo dinnanzi ad operazioni che d’artistico hanno solo l’infiocchettatura. Mi verrebbe da asserire: quando un’arte esonda val la pena di ammirarla. In tal caso fatemi un fischio, se non son già alla proda.