ANDREA ASTOLFI X LIDIA FLAMIA
Andrea Astolfi nasce ad Atri (TE) nel 1990. Pubblicazioni su: utsanga.it | nazioneindiana.com | niederngasse.it | slowforward.net | ilcucchiaionellorecchio.it | neutopiablog.org | perimetro.eu | zetaesse.org . Tre i lavori su carta licenziati, rispettivamente: ὁράω, breviari d’artista, stampato in tiratura limitata su carta di pregio, 2016; Abbiamo visto un film, libro-installazione, impresso su carta fotografica, 150 copie numerate e firmate, ita/eng, 2018; kireji, libro d’artista, 22 copie numerate firmate timbrate, carta ecologica riciclata 100%, rilegatura alla giapponese cucita a mano, imbustato in carta glassine sigillata, 2020, conclusivo del progetto di scrittura breve kireji.it. Tre i lavori di affiche art sullo spazio urbano: F A C E S (2019), shhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh (2020), avvenuti entrambi in Atri e STOP! CLEAR! DELETE! (2020) – Inner Room, REMEDY, Open Zona Toselli, presso Siena. Ideatore e curatore del programma radiofonico dodicipm, focalizzato sulla ricerca artistica contemporanea, su www.radioarte.it . Curatore della rubrica video 60’’ sulla rivista indipendente di poesia e cultura NiedernGasse.
Lidia Flamia: Raccontaci il tuo percorso, le relative influenze, evoluzioni e maturazioni in corso d’opera.
Andrea Astolfi: Il mio campo d’indagine principale è sempre stata la scrittura, anche se con gli anni ho esteso la ricerca anche ad altre forme come il video, la fotografia analogica e digitale, il glitch, il manifesto, la poesia visiva e concreta. Sempre più ho virato la scrittura nel terreno delle arti visive, come tanti hanno già fatto prima di me. Sono autodidatta, ho sempre rifiutato l’accademia e il suo approccio sistemico e sistematico – “disabilitante” prendendo a prestito da Illich –, ho sempre creduto che l’unica vera fonte di apprendimento fosse la propria esperienza, lo studio che si fa da sé, gli incontri importanti. Le influenze sono tante, così tante che non saprei neanche più individuarle, ormai sono parte di me. Di sicuro un’influenza molto forte mi viene dalle arti giapponesi, dall’estetica del vuoto orientale, dallo zen. Penso anche al cinema di Wong Kar Wai, ai minimalisti, a Kerouac, Baudelaire… Più vado avanti più tolgo, più passa il tempo più dimentico. La maturità forse ha che fare con questo: la dimenticanza di sé.
LF: Nei tuoi lavori ricorri frequentemente all’utilizzo del mezzo fotografico – ti avvali di suggestioni visive in particolare, o focalizzi un concetto per poi tradurlo in immagine?
AA: Mi piace usare il mezzo fotografico, già, ma non sono fotografo. Qualche anno fa ho iniziato a scattare su pellicola con compatte e toy camera. Fotografavo un sacco, in alcuni giorni anche un rullino in 24h e andavo subito in un minilab a sviluppare quanto scattato. Ultimamente sto usando invece solo le istantanee. Poi, come comunemente si fa, utilizzo anche la fotografia per documentare il mio lavoro, soprattutto la ricerca che sto facendo con il mezzo manifesto. Direi che i miei lavori nascono spontaneamente e anche fortunosamente, solitamente a seguito di un’intuizione momentanea, molto spesso per errore. Lasciare che le cose accadano, più che aizzarle. Mi interessa molto il ricorso al glitch, alla disfunzione e soprattutto il processo sottrattivo. Non utilizzo né suggestioni, né concetti. Naturalmente un lavoro quando viene fuori possiede anche una dimensione estetico-intellettuale di riferimento, ma sempre più sto cercando un lavoro pulito, semplice, senza nessun concetto particolare. Per quanto mi riguarda (apro parentesi) l’arte concettuale ha dato tanto ma mi sembra proprio conclusa. Forse, mi dico a volte: l’arte dovrebbe tornare all’oggetto? La performance non la considero, l’installazione fino ad un certo punto. Non so se dovrebbe tornare all’oggetto. Forse bisognerebbe tornare a fare un’arte politica, se mai si è fatta, dal momento che quella degli anni ’70 forse sarebbe più corretto chiamarla arte partitica. Per arte politica intendo, un’arte orientata e generata alla/dalla polis, che affronti, dialoghi e interroghi temi scottanti, di importanza stringente, e non un’arte al servizio del segretario di partito di turno o prestata all’ultima campagna elettorale che s’ha da vincere a tutti i costi; lo scenario – di mercato – dominante attuale mi sembra quello di un’arte completamente ripiegata su se stessa, intimista, decorativa, che non aggiunge un h al discorso, né ne toglie – magari –, insomma un’arte che forse sarebbe più onesto nominare “arredo” o “corredo” così come tutta una schiera di artisti o sedicenti tali che cadrebbe meglio sotto l’etichetta di “designers” – la tendenza a sovrapporre i piani, a mischiare le carte, tra arte e design è ormai cosa conclamata nella scena, invece bisognerebbe fare un distinguo preciso, perché sono due attività con finalità, modalità e germinazione completamente diverse. Polemicamente, a riguardo, si potrebbe dire che aveva visto giusto Beuys: Creativity = Capital (una novità?), un’arte unicamente al soldo del mercato, del Capitale (chiusa parentesi).
Una distinzione quindi centrale, non prorogabile: ci stiamo occupando di ricerca o di mercato? A me è sempre interessata la ricerca, mi sento di poter dire che è l’unico modo che ho di vedere e cercare di capire quanto mi accade intorno. In sostanza credo che quella dell’arte non sia né più né meno che una Via, semplicemente una pratica continua e mai definitiva né definita. Mi viene in mente una celebre frase di Dogen, il più grande maestro zen giapponese di tutti i tempi, che fa al caso nostro: “Apprendere se stessi è dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi è essere risvegliati alla Realtà”. C’è altro?
LF: Qual è il tuo concetto di contemporaneità?
AA: Personalmente non sento l’esigenza di una definizione a riguardo, anzi la rifuggo volutamente. Direi semplicemente che la contemporaneità sta per forza di cose al momento presente, così come al passato, dal momento che è continuamente in transito, in parte, quindi, già conclusa. L’unica individuazione adeguata sul tempo e sulla sua percezione che trovo è quella propria dell’insegnamento buddista: impermanenza. Contemporaneo, moderno, antico, sono solo perimetri utili a contornare una storia che in quanto tale non è mai esistita. Semmai resistita, a sé stessa. Eppure..
LF: Ho trovato particolarmente interessanti i tuoi interventi negli spazi urbani. Mi riferisco in particolare ai tre manifesti F A C E S (2019). Ti andrebbe di raccontarci la genesi di questo intervento?
AA: F A C E S è il primo lavoro con il mezzo manifesto che ho realizzato. Essenzialmente si è trattato del posizionamento di tre manifesti 6X3 metri, raffiguranti tre faces potenziali, in tre diversi indirizzi nella cittadina di Atri, Abruzzo, al fine di utilizzare degli spazi comunemente destinati alla trita pubblicità consumista alla stregua di spazi espositivi. Trattandosi di foto di volti solo accennati, non palesi, spettava all’osservatore il compito di dare una voce, uno sguardo e un volto alle immagini matrici. L’interesse per il mezzo manifesto è sorto in relazione alla sua comune collocazione in uno spazio, come quello urbano, non protetto, alla mercé di qualsiasi evento, e sicuramente per la transitorietà intrinseca del supporto stesso, per la fragilità che gli è propria. Per l’occasione ho realizzato anche 100 ephemera double face, in 18 (6×3) diversi colori, sparsi ai quattro venti, a rivendicare l’effimero dell’arte, della comunicazione pubblicitaria, e soprattutto l’impermanenza che contraddistingue tutta la nostra vita. A chiudere l’intervento, nel suo ultimo giorno, la consegna alla città delle 18 copie del catalogo, ricognitivo dell’azione, – catalogo realizzato su carta comune, non spillato, coerentemente con la provvisorietà dei supporti dell’intero progetto – consegna preceduta dalla performance di smembramento della la face_1 e dal riposizionamento di un lacerto in ognuna delle 18 copie del catalogo, simbolo e memento dello spirito di F A C E S.
LF: shhhhhhhhhhhhhhhhh(2020) si avvale dello stesso principio, ma vede protagonisti i manifesti bianchi, i quali come un elogio al silenzio, irrompono nel cuore del frastuono urbano. Com’è nato questo intervento? Quali obiettivi ti sei posto nella sua realizzazione?
AA: shhhhhhhhhhhhhhhhh è il secondo lavoro con il mezzo manifesto e rispetto al primo ha avuto sullo spazio urbano dello stesso luogo, Atri, un impatto totalizzante. Per la realizzazione di questo intervento ho acquistato tutti gli spazi pubblicitari del comune, precisamente 205 postazioni, riguardanti manifesti di 3 diverse dimensioni: 6X3 metri, 140X100 e 70X100. La notte del 3 gennaio 2020, io e una squadra costruita ad hoc, abbiamo letteralmente sbiancato l’intera cittadina tramite l’affissione di manifesti bianchi in ogni dove. È stata un’esperienza incredibile, perché sembrava proprio che la città fosse nostra, presa del tutto, una vera e propria azione situazionista. Alle prime luci del mattino la cittadina era quasi tutta sbiancata e le poche persone che iniziavano a girare per le strade guardavano incredule, non capivano, molti si fermavano per chiedere spiegazioni, ma noi, dicevamo, eravamo solo assoldati, nulla sapevamo a riguardo. Poi per un paio di giorni non si è parlato che di questo in giro, è stato davvero spassosissimo. La rivendicazione dell’intervento è avvenuta solo a 72 ore dal fatto, nel giorno del 6 gennaio, data cardine che sta ad indicare proprio la “manifestazione”, oltre che ad essere il mio stesso giorno natale. Un intervento scagliato al cuore del rumore visivo, percettivo e indiscriminato della società dei consumi, pensato al fine di manomettere ed evidenziare l’erosione progressiva e la mercatizzazione incessante dello spazio urbano. Tre i piani dell’intervento: etico, estetico, politico. Etico: invito al raccoglimento, alla ricerca di sé stessi; estetico: una nuova visualizzazione della cittadina nel bianco-manifesto; politico: indicativo di una dimensione esistenziale antimercantilista e antieconomicista, protesa dunque alla riscoperta della vera natura dell’uomo. A concludere l’intervento, il talk presso il Museo Capitolare di Atri, il giorno 10 gennaio 2020, con gli interventi di Filippo Lanci, Lucio Rosato e mio, in occasione del quale si è discusso con i cittadini e gli astanti dell’azione e si è assistiti alla proiezione del video che ho realizzato sul lavoro di messa in opera dell’azione e alla donazione al Museo stesso della scopa con la quale sono stati affissi i manifesti. Dalla data d’affissione i manifesti dovevano permanere solo 2 settimane ma a seguito – di lì a poco – dell’esplosione della pandemia Covid-19, sono rimasti affissi fino al mese di maggio. Era incredibile, ma perfetto: tutti sbrindellati, bucati, macchiati, con il bianco che iniziava a ingiallire.. neanche a farlo apposta… insomma l’embargo contro la pubblicità consumista ha funzionato, oltre ogni previsione temporale.
LF: Durante il lockdown hai realizzato girogirotondo (2020) – un ciclo di riprese che si avvale di un registro documentaristico del reale, offrendo una chiave di lettura esistenziale notevole. Pensi che questo lavoro possa avere ulteriori declinazioni?
AA: Credo di sì. Mi piacerebbe dare una collocazione e dimensione fisica a questo lavoro con una mostra, installazione, qualcosa del genere, quando si potrà, dal momento che per ora ne ha avute solo di tipo virtuale. Bisogna dire che l’attenzione al circostante e al quotidiano, un approccio che potremmo definire diaristico, pratico, concreto, è parte della mia ricerca pressoché da sempre, proprio perché come detto in apertura sono dell’idea che non bisogna andare tanto lontano per osservare la lepre, la lepre ci sfugge da sotto il naso continuamente; bisogna stare sul naso per veder passare la lepre e viceversa. girogirotondo è un lavoro molto semplice, a grado zero. Nell’aprile scorso, ho filmato tutti i giorni, ogni giorno, il girogirotondo che tracciavo lungo il cortile di casa, con fotocamera e microfono dello smartphone puntati dritti al cielo, fino alla fine della condizione generale di lockdown. girogirotondo non è solo un esercizio che mi sono imposto di rispettare ogni giorno; girogirotondo è anche il canto degli uccelli, l’azzurro terso del cielo, il suo grigio nei giorni piovosi, il parlottare dei vicini oltre lo steccato; questa grande bellezza che ci vive affianco e viviamo quotidianamente ci continua davvero a far sentire umani – persone che non vivono solo di decreti, bolle economiche e bombardamento mediatico. Inoltre di girogirotondo esiste anche una versione – stando al tema “declinazioni” – di sound art, che è stata selezionata nel luglio 2020 per il progetto “Beyond the Silence, musica al tempo della pandemia”, rassegna radiofonica organizzata dall’Accademia Musicale Chigiana in collaborazione con inner room e trasmessa su radioarte nei mesi di luglio e settembre.
video playlist: https://www.youtube.com/watch?v=N3kRkl83P-A&list=PL9ITRuWs30WBnluDqmzTqmrs3t2Um2sxQ
LF: dodicipm è un programma ideato e curato da te, racconta ai nostri lettori di cosa si tratta!
AA: Sì. È un progetto iniziato ad anno nuovo, è la prima volta che mi lancio nel mondo della radio e devo dire che mi piace molto! Essenzialmente si tratta di un programma incentrato sulla ricerca artistica contemporanea, che va in onda ogni mercoledì a mezzogiorno e replica alla sera, sulla ventennale radio indipendente, totalmente dedicata alle arti: www.radioarte.it. L’idea è quella di tentare di restituire una mappatura, parziale certo, di alcune delle ricerche artistiche più interessanti nel panorama nazionale, soprattutto quelle indipendenti, testarde, fiere, riguardo la scrittura di ricerca, la glitch art, la scrittura asemica, la curatela indipendente, le arti visive, ecc ecc. La parola d’ordine del programma è, appunto: ricerca. La prossima puntata – quella del 24 marzo – sarà la decima e vi sarà un’artista davvero incredibile che stimo moltissimo e ha tante cose da raccontarci, quindi vi consiglio vivamente di seguire! Per chi volesse riascoltare le precedenti puntate, sono già usciti i podcast delle prime puntate (https://www.radioarte.it/calendario/series/learning/) e a breve usciranno tutte le altre. La scaletta è moltoooo fitta!!!
LF: A quale progetto ti stai dedicando? Ti andrebbe di svelarci qualcosa?
AA: Ho da poco realizzato una zine fotografica: nessun concetto, nessun testo, nessun refuso. 12 foto per 12 copie, formato 14,8 X 19,7 cm, carta ecologica 100% riciclata. Non firmata, non numerata, non titolata. Timbro rosso. Giusto per tornare al discorso: niente concetti, niente cazzate. Le foto utilizzate sono tra le prime che ho scattato in pellicola qualche anno fa, un giorno che ero al mare, con una toy camera provvista anche di una custodia per l’immersione. Nella zine, non c’è nessun testo, né è indicato il mio nome o un titolo. Mi chiedo se l’ho realizzata davvero io, se possa davvero dire, pensare o semplicemente riscontrare che l’abbia fatta io. Non saprei dire. Infine, domani, sempre su www.radioarte.it esce un lavoro collettivo titolato “20” che ho ideato e curato per radioarte, centrato sul dialogo tra sound art e testo, musica concreta e scrittura di ricerca. “20” – 20 anni di attività di radioarte, 20 autori, 20 marzo – è un happening radiofonico della durata complessiva di un’ora e venti circa, a loop per 24h in radio, a cui hanno partecipato 20 autori di punta della scrittura di ricerca italiana, il tutto, il giorno precedente la giornata mondiale della primavera… ergo: sintonizzatevi!!! E poi tanti tanti altri progetti e lavori in pentola che vedrete, vedrete più avanti…
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