COLLETTIVO KARAKORUM X FRANCESCA DISCONZI
Francesca Disconzi: Collettivo Karakorum è un gruppo poliedrico che si forma a Brescia nel 2019. Esso nasce da molteplici visioni e sensibilità del fare artistico, con l’obiettivo di radunare artisti provenienti da diverse discipline e con diverse competenze tecniche, allargando i confini del proprio campo di indagine.
Come Osservatorio Futura, siamo entrati in contatto con loro sui social, intraprendendo successivamente un rapporto virtuale. Quello che abbiamo ritenuto particolarmente interessante, al di là dell’alto livello dell’offerta artistica, è la totale apertura al dialogo che diventa fine e non mezzo. L’opera finale del collettivo è infatti un mix di performance, teatro, installazione, suono in cui il processo di creazione, che vive di uno scambio profondo di competenze, è leggibile nella stessa.
Come enunciato nello statement del collettivo: “fondamento primario di tutti i progetti è l’aggregazione capace di inglobare nell’opera il pubblico, rendendolo parte attivo di essa”.
Partendo da questa chiave di volta, è venuto naturale per noi condividere alcune riflessioni su cosa significhi questa – ormai lunghissima – assenza del fruitore analizzando come una progettualità, che considera l’occhio dello spettatore parte integrante del lavoro, si sia adattata nella fase del distanziamento sociale.
Nell’ultima chiamata Francesca Cordone, co-fondatrice del collettivo, ci parla della produzione di un nuovo format. Esso coinvolge in modo diretto l’intimità degli artisti coinvolti, che aprono la propria stanza al pubblico che vi osserva da uno spioncino: la lente della videocamera.
Nel primo episodio proposto, una sorta di dichiarazione d’intenti, il corpo si muove all’interno dello spazio domestico in modo performativo ma mai costruito, circondato dalla familiarità dei suoi oggetti, intriso della quotidianità delle sue azioni. Esso interagisce e abita lo spazio secondo la sua sensibilità artistica, trasformando la stanza in luogo sacro di azione.
Colletivo Karakorum: Probabilmente a marzo 2020 nessuno avrebbe mai potuto immaginare l’anno che abbiamo appena trascorso.
Un anno ricco di così tanti cambiamenti che è nata spontanea la necessità di riadattamento, di riscoperta, di ridefinizione delle proprie abitudini, dei propri equilibri.
Come collettivo ci siamo subito trovati separati, fisicamente lontani e mentalmente connessi.
Il 2020 è stato un anno vissuto davanti ad uno schermo, dietro ad una cornetta, correva sul filo di una connessione instabile. Invece di una corsa all’oro è stata percorsa un’intera maratona del virtuale, delle storie su Instagram, delle video call su meeting e delle dirette su Clubhouse. Tutti hanno dovuto ridefinire il proprio spazio di lavoro, a volta anche il lavoro stesso, e dare luogo ad una simbiosi tra la vita privata e quella professionale.
E noi? Noi avevamo sempre lavorato dal vivo. Ciascuno di noi, chi nel teatro, chi nella musica, chi nella danza, si è sempre esibito fra la gente.
Il nostro spazio di lavoro era lì fuori, dentro a un teatro, in una galleria, in uno spazio culturale.
Così abbiamo iniziato a sperimentare e a guardarci attorno. Il lockdown stava costringendo l’arte sui canali digitali e così ci siamo resi conto che non potevamo semplicemente replicare alcuni dei nostri vecchi lavori su una piattaforma online, ma dovevamo imparare delle nuove regole, fare i conti con un luogo virtuale che ci avvicinava e che nel contempo ci faceva sentire ancora più distanti.
Abbiamo ridefinito il nostro metodo, il nostro vocabolario. Abbiamo compreso a piccoli passi di come il movimento cambi se costipato tra le mura domestiche (quanto spazio d’azione si ha realmente? qual è il limite che la spazialità ridotta crea?), di come sia difficile comporre musica da soli, quando il tutto prima nasceva da una continua improvvisazione, da un continuo dialogo.
Così nasce MyRoom, da un’esigenza. Un progetto a puntate nel quale lo spettatore entra direttamente nella casa dell’artista attraverso un punto di vista prescelto (una fessura, un oggetto della stanza, una porta, etc…) e può osservare da vicino la sua sfera privata, il suo intimo.
Ogni puntata ha l’obiettivo di raccontare un vissuto diverso in cui il protagonista indossa le proprie vesti e si muove nello spazio, delle volte riuscendo a percepire la propria musica interiore, delle volte ignorandola.
Il gesto nasce performativo, ma non si estingue mai nella performance, esso vive costantemente in bilico. Un binomio in cui la distanza è sorella della vicinanza e l’accoglienza diventa lontananza.
Siamo rimasti piacevolmente colpiti di come la difficoltà ci abbia permesso di sperimentare nuove modalità di comunicazione che non avremmo mai esplorato probabilmente in altre circostanze. Ciascuno di noi si è reinventato, imparando ad utilizzare nuovi programmi, a fare qualche ripresa, a editare una foto. Ognuno cercava di ampliare la propria conoscenza, che diventava immediatamente strumento, il tutto con l’obiettivo di poter tornare a dialogare con altri artisti e con il pubblico stesso.
Possiamo dire che grazie a questo anno un po’ sui generis abbiamo conosciuto e collaborato con realtà che abbiamo conosciuto solo tramite uno schermo o attraverso una voce. Realtà che, proprio come Osservatorio Futura, ci porteremo dietro quando riapriranno i fronti, non abbiamo dubbi.
Tutti sulla stessa barca, è necessario remare insieme per superare questa tempesta.