SPIN-OFF: FEDERICA ZOTTI X ANNA CASARTELLI
Partendo dal manga, passando per l’anime, l’hentai e il videogioco, la cultura asiatica ha permeato le pagine, la storia e la memoria collettiva legata al genere femminile rendendolo tanto iconico ed ambiguo da permettere che si preservasse fino ad oggi.
Con estrema facilità sopraggiungono alla nostra mente immagini figuranti trame adolescenziali di studentesse in divisa, siano esse voluttuose supereroine o timide ragazze della porta accanto, che dolcemente preparano pietanze per famigliari ed innamorati alle prese con la compagna rivale o le migliori amiche di sempre. Aggiungi quello che nella nostra cultura corrisponde al famiglio, sia esso un tenero gattino o un mostriciattolo di fantasia, un po’ di magia e il gioco è fatto.
Quello che risulta chiaro è come, complice anche la particolare propensione della cultura giapponese alla riverenza e alla disciplina, ogni carattere femminile conservi sempre un’ideale mansuetudine, talvolta persino una “graziosa violenza” attenta a non lasciar trasparire alcuna smorfia esacerbata (sia che venga collocato nel rassicurante insieme della “figlia candida”, sia che faccia parte della controparte “madre puttana”). Contegno. Perché sul palco come nella vita, conta l’apparenza, l’attitude.
Come spiega infatti R. Barthes, nella tradizionale arte giapponese del teatro No “Il bianco del viso sembra avere la funzione, non tanto di snaturare la carnagione, o di farne una caricatura […] ma soltanto quella di cancellare la traccia anteriore dei lineamenti, di ridurre la faccia alla distesa vuota di una stoffa opaca […] La faccia è soltanto la cosa da scrivere […] ”. (1)
Un foglio bianco sopra il quale scrivere una storia, un immaginario, un desiderio, quello eterosessuale dell’uomo. Il che fa sorridere, se si pensa che i ruoli femminili, in Giappone come nelle culture mediterranee antiche, erano interpretati da soggetti maschili. Il maschio che scrive, plasma sul corpo femminile la sua stessa essenza filtrata dal suo occhio. Un nodo complesso di giochi di ruolo, in cui quello della donna, in un modo o nell’altro, finisce per essere sublimato. L’appiattimento del volto stesso ottenuto attraverso il trucco tradizionale femminile ne annulla l’essenza, evidenziandone – ovviamente – i caratteri erotici come gli occhi e le labbra. Ogni traccia di personalità viene distrutta da una maschera bianca intensa, il corpo nascosto e fasciato sotto lembi e lembi di stoffa. La vita ridotta ad un rituale, lo spettacolo nella società dello spettacolo. Un allegro e composto spettacolo di eleganti marionette.
Questa estrema codificazione della gestualità, estesa ad ogni ambito del quotidiano, è stata tramandata sin dall’antichità sopravvivendo fino ai giorni nostri sotto diversi aspetti estranei al contesto della “cerimonia” fino ad insinuarsi all’interno di quella che potremmo comunemente chiamare cultura pop.
Ripercorrendo la natura fenomenologica della creazione del feticcio della studentessa avvolta nel Seifuku (la tradizionale divisa scolastica) è di fondamentale importanza passare attraverso il significato della parola Kawaii.
Il termine, entrato a far parte della cultura popolare dagli anni Ottanta, può essere tradotto con gli aggettivi “grazioso”, “adorabile”, “carino”. Si riferisce essenzialmente a oggetti, persone e modi di fare che possono essere considerati dolci, innocenti, puri, ma anche infantili e bambineschi. Un fenomeno apparentemente riconducibile a tempi recenti, alla globalizzazione e all’apertura del Giappone alle logiche consumistiche occidentali, ma che affonda le sue antiche radici nella predilezione del popolo giapponese per tutte le cose piccole, minute, effimere, affetto che si dimostra sin dalle prime produzioni del periodo Edo (1603-1868) di piccoli fermagli ornamentali per i kimono, i Netsuke. L’attrattiva verso il “candore delle cose” incede inglobando sempre più sfere della cultura dando vita a nuove declinazioni: dalla creazione del fenomeno mediatico dei Nameneko (cuccioli di gatti vestiti da teppisti) al modo di parlare, fino alla deformazione dei caratteri di scrittura.
Estremizzato all’inverosimile prende la forma di un’ossessione schizofrenica verso tutto ciò che nei colori o sembianze è “tenero e coccoloso”, accompagnata da gridolini di circostanza e un look che si avvicina molto al mondo del cosplay, dei cartoni animati e dei fumetti. Arriva alla cultura occidentale riempiendo interi negozi di oggettistica di Hello Kitty, di personaggi della Sanrio e di gingilli dalla tenerezza puerile smodata. Arriva nei negozi, sì, ma anche nei nostri televisori.
Kawaii desu, ne?
Carino, vero?
Carino ed insidioso; quel mondo un po’ fuori dalle righe che ha segnato tutti i nati tra gli anni Ottanta e Novanta, con i jingle e la magia che tanto fanno brillare gli occhi – di fascinazione e nostalgia – altro non è che il riflesso e lo specchio di una lunghissima serie di stereotipi e di topoi che non caratterizzano solo personaggi di finzione, ma che vanno a definire l’identità sia dell’individuo maschile che di quello femminile.
La fascinazione che l’eterotopia “Kawaii” crea all’interno della società va a compensare in modo immediato quel senso di appartenenza ed affermazione di cui necessita l’individuo rendendo sempre più comune l’idea che la ragazza – non più donna, ma estensione dilatata e caricaturale di un infante – sia bramata nel momento in cui si presenti come docile e disposta ad essere “riempita”. Di identità, di carattere, di sperma, di vita.
Da questo bisogno viscerale di riconoscimento nascono nuovi termini come Burikko, definizione dispregiativa che indica quel tipo di donne che fingono di essere ignoranti ed infantili di fronte al sesso opposto pretendendo di essere impotenti; o Tsundere, riferito ai modelli la cui attitudine risulta dapprima arrogante ed ostile per poi addolcirsi col tempo.
Attributi di questo calibro, facenti ormai parte del gergo comune, vedono emergere un supposto tratto distintivo del carattere, espanso fino a divenire grottesco ed asfissiante. Prende vita così una femminilità intenzionale incasellata in una serie di vocaboli specifici, volti a dare uno spirito al fantoccio vuoto che la donna rappresenta agli occhi del patriarcato.
“A tutti piace un bel caratterino”
Alla stregua dei manuali di comportamento occidentali atti ad insegnare la seduzione, dei video-essays su come essere la perfetta casalinga e del Bunny Manual di cui parla Paul B. Preciado in “Pornotopia” (2) – riferendosi al cahier di istruzioni che veniva consegnato ad chiunque volesse entrare a far parte della Playboy Mansion e a cui doveva attenersi per coronare il proprio sogno di coniglietta desiderabile -, 学生 (Gakusei) si pone nel mezzo. Tenta di smascherare, da un lato, le sfumature architetturali che stimolano la formazione di impulsi mentali e sessuali, dall’altro di evidenziarne la potenza immaginifica.
Una videoricetta per essere l’oggetto sessuale dei sogni: remissiva, ma eccitante, innocente, ma risoluta, sfacciata, ma non troppo. Un corpo de-umanizzato che diventa manichino in un limbo bianco, una donna tutta da vedere, a trecentosessanta gradi. Si viene proiettati in una dimensione altra, in cui lo spettatore si trova inevitabilmente solo davanti al suo stesso desiderio. Avvolto da una voce meccanica, viene messo in contatto con le proprie perversioni in una dimensione di normalità e asetticità disarmante. Non-umano è il corpo, la voce, il contesto. Tutto lascia pensare a un palco costruito, ad una whiteroom senza vie d’uscita quando ci si rende conto, man mano che ci si addentra nella narrazione, che è tutta vita, è tutto presente. Quelli che fino ad ora sono stati definiti come costrutti della società orientale sulla donna finiscono per rivelarsi, in modo nemmeno così implicito, come sottostruttura di un pensiero più profondo e radicato: quello dell’occhio maschile.
Formulando sempre nuove posture a cui attenersi volte alla castrazione e al contenimento delle più pericolose attestazioni di indipendenza, lo spettatore beneficia di un porto sicuro, privo da responsabilità di esplorazione che l’incontro con l’Altro comporta, illudendosi di partecipare ed essere lui stesso fautore di quella condizione e narrazione tramite la creazione di un Nuovo Feticcio Erotico.
This manual should answer many questions that you may have concerning your new responsibilities. Read it carefully, learn your duties well………..
And again, congratulations and the best of luck (3)
Note:
(1) R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino, 1984, pp.105-108.
(2) Paul B. Preciado, Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, Fandango Libri, Roma, 2013.
(3) The Playboy Club Bunny Manual, 1968-69.
Tutte le immagini sono cortesia dell’artista