IL MITO DELLA PERSONALE

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ALESSIO MOITRE

Le vicende in solitaria si concludono positivamente nel solo caso in cui, in fase progettuale, vi sia stata un’accorta sequenziazione, rimpolpata da spazi temporali adeguati. Per acconsentire ad un tale scenario, il soggetto interessato dovrà professionalmente costruirsi al fine dell’ottenimento dell’obiettivo. La prospettiva appena evocata può apparire di stampo manageriale ma è invero una prerogativa imprescindibile per permettere ad una mostra personale di avere qualche speranza di riuscita (la certezza è produzione divina). Se il piano economico rimane fumidio, tutto ciò che concerne la fabbricazione è invece materia e oggetto di valutazione. Le mostre a singolo artista sono dotate di molteplici asperità, prima fra tutte il capitale umano di partenza.  Non tutti i creativi sono adeguati a sopportare una tale pressione. Il carattere emotivo è solo in parte la risposta, che viene guastato in determinati casi da una, purtroppo, congenita incapacità organizzativa. Molti spasimanti di tali eventi infatti riversano nella mitologia galleristica le aspettative migliori. Il loro ideale è una mostra mercato accompagnata, quasi intavolata, da un comunicato accattivante o perlopiù frigido ma impaginato elegantemente. Debbono affrontarne almeno una all’anno, possibilmente in date sensibili corrispondenti alle fiere di settore, meglio se nella regione a fianco a quella di appartenenza, o d’origine, o di convenienza, con un massimo di un paio di salti da monopoli, comunque sotto ad un certo kilometraggio per non incappare in spese imprecise (raramente esistono i rimborsi carburante o di biglietti di vario trasporto). È inusuale che giungano al gallerista sottoponendo un’idea da cui potrebbe scaturirne qualcosa di sviluppabile. Pare che il pacchetto sia già stato strutturato e che la carta sia adattabile ai più disparati usi. La concessione o l’impostazione di una personale è innanzitutto una saggia considerazione dello spazio a disposizione (buona regola che non ho ancora appreso, è limitare le aree fruibili perché in caso diverso saranno sistematicamente invase, fino all’esaurimento dei muri disponibili). Se si è alle prime esperienze, il bilanciamento è sconosciuto. Quasi mai mi è capitato di imbattermi in soggetti consci delle proprie possibilità ma l’anagrafica suggerisce pazienza e valutazioni successive. Con il passare degli anni però, la messa in opera di un’esposizione può diventare letale per un rapporto lavorativo. Indefinitezza della disposizione, mancata cura di cornici, supporti, luci, mancanza di pulizia nel processo installativo (con conseguente passaggio di stucchi, vernici e prodotti igienizzanti per migliorare la qualità della visione), sottovalutazione dei tempi e dei modi sono una piccola parte degli intoppi che possono inzaccherare anche la più splendida intenzione. Un ricordo penoso dei primi anni di lavoro fu la constatazione di un’artista, a me in fondo cara per trascorsi ed esperienze, annaspante nella sistemazione delle proprie installazioni. Il risultato fu una pessima visione d’insieme (poi modificata dopo attente valutazioni di gruppo), opere appiccicaticce e accrocchiate, con venature di disperazione in forma di chiodi mal piantati e correzioni dell’ultimo istante. Il consistente scenario problematico produsse una nottata a risistemare, insieme all’artista, il campo disastrato di una personale che nelle sue volontà mi era stata chiesta espressamente. Neanche le buone vendite mi alleviarono un malessere che mi portò a non produrre più sue personali. Molti sono stati i casi similari raccontatemi da colleghi e conoscenti. Il finale è un inaridimento dei rapporti sino alla definitiva conclusione lavorativa. Nell’epoca che stiamo vivendo, vari studiosi hanno applicato il modello dell’individualismo al sistema artistico, riuscendovi senza troppo argomentare. La visione uno a uno pareva attagliarsi all’esigenze contemporanee, lasciando al pubblico una fonte di valutazione che la critica si era vista sottrarre. Di certo un arte semplificata (una contraddizione se analizzata alla luce delle teorie sulla complessità del novecento) ma gradita all’uomo dalle sempre minori parole in dotazione. È ciò che ci si attende da un atto individuale. Dunque ha senso insistere con un tale modello? Non sarebbe funzionale scerbarlo oppure renderlo meno diffuso? In fondo le collettive, dal maggiore numero di opere e dunque d’artisti rispondono degnamente alla richiesta di differenziazione di stimoli e paiono anche essere un toccasana per l’umore (l’approvazione della massa è una strega esperta), già depauperato dalle vendite scarse del settore o pressoché nulle. Scavallando i rischi connessi e i possibili inciampi, le personali se ben gestite hanno un meraviglioso effetto che definirei quasi gestionale.Costruirsi un gradino, definendo l’ottenimento di un risultato o un avanzamento creativo, è un profondo integratore d’energie e se fosse ripulito da mire ansiogene, se ne constaterebbe l’incredibile portata lavorativa. Non credo, anche per via di analisi sul campo, che ne servano un quantitativo ma è irrealistico che una persona di senno possa ritenere gradevole nonché fattibile la costruzione di più di due personali all’anno. Il motivo mi pare sia assimilabile alle bottiglie di vino del supermercato vendute (o svendute) a meno di cinque euro. La produzione, la gestione e lo smercio di tale prodotto non potrebbe avvenire a quelle cifre senza aver imbottigliato una sostanza scadente. Tale principio potrebbe valere anche per determinati eventi, peggio ancora se riproposti o traslati da un altro spazio, come se fosse uno stoccaggio da grandi magazzini. Enologicamente parlando, per alcuni anche le annate hanno il loro peso. È giusto concedere a piene mani infilate di mostre per solisti a giovani con poca esperienza lavorativa? Ad inacerbire l’opera basta uno spiro di vento. Se non incide la morigeratezza dell’interessato, il rischio diverrà presto un danno impossibile da aggiustare. Ma mi verrebbe da affermare che poco o nulla può un tecnico se non cercar di consigliare. E qui si tornerebbe alla scuola, alle basi che dovrebbe saper fondare, alla costruzione dell’artista ma sono anche io stufo di riprenderlo di continuo e ritengo che ormai più nessuno lo voglia leggere. Rimane intatta invece la mitologia che un atto in solitaria comporta. L’affrontare coscienziosamente l’individuale insicurezza, soppesandone la contrarietà nei fini illusori, facendosi forte della logica dell’atto, è un procedimento che non dovrebbe ammettere ignoranza. La legge non è in ballo. La scia della guida creativa è un procedimento che anche a nostra insaputa, trama e sviluppa. Esserne a capo, riuscendola anche in rari sprazzi a veicolare per gli svariati interessi, è una meravigliosa possibilità umana che troppo spesso viene ammansita per far posto al compiacimento o all’accettazione che un pubblico potrebbe concederci. Lavorare per se stessi è un enorme privilegio che nella società odierna di solito viene tassato e reso improbo dalle negatività che lo infiocchettano. Ma vogliamo mettere una personale ben riuscita, con tutti i suoi crismi, con tutti i sensi che il caso richieda, con la consapevolezza, la giustezza e la logica ben temperata dal momento? Per un’artista è il massimo ottenibile. Il luogo poco importa. È una considerazione intima che finalmente ha un corpo. Come vedere per la prima volta. Questa sì che è un’esperienza che pochi potranno ricordare.