LA FRANCHEZZA DEI CORPI. INTERVISTA A CHIARA LOMBARDI

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CHIARA LOMBARDI X ELEONORA SAVORELLI

Eleonora Savorelli: Presto pubblicherai il tuo nuovo libro fotografico “It disappears slowly”, in collaborazione con la piattaforma @selfselfbooks (link per il crowdfunding). Mi parleresti di come è nato e come si è sviluppato questo progetto?

Chiara Lombardi: “It disappears slowly” è un progetto che nasce circa due anni fa come tesi di laurea; prende respiro di nuovo soltanto nell’ultimo periodo, grazie alle riaperture, e grazie al fatto che ho ricominciato a fotografare. È un progetto che riflette sulla libertà. Sicuramente, questa è una tematica che per me è sempre stata fondamentale, e che durante il primo lockdown ha acquisito particolare rilevanza; nello specifico, mi ha fatto riflettere sul nostro stare in società. Grazie agli studi che stavo portando avanti per la tesi ho individuato un filo conduttore: la censura. Ho cercato storie e persone che in qualche modo avessero avuto a che fare con la censura scoprendo che tutti e tutte ne siamo immersi. Spesso una delle conseguenze è l’auto censura. La società ci impone un determinato modo di essere, di stare al mondo, imponendoci uno standard di “normalità”, che in realtà non esiste, perché nessuno standard si può conformare a tutti gli individui. Poiché parliamo di un concetto estremamente culturale, è chiaro – ma non scontato, ricordarci che ciò che è “normale” per me è possibile che non lo sia per una persona, per esempio, non occidentale, non bianca, non cresciuta in un contesto cristiano-cattolico come me. È stato quindi naturale e spontaneo non ricercare “qualcosa” in particolare, anche perché questa decisione mi avrebbe portato ad avere un pregiudizio nei confronti delle storie che ricercavo. Molte volte io ed i miei soggetti ci siamo scelti, e continuiamo a sceglierci, e questa è una delle cose più belle del mio lavoro. Mi è capitato spesso che le persone alle quali parlavo di questo progetto mi chiedessero di essere coinvolte e la risposta è sempre sì. Per raggiungere la massima apertura di questo progetto vorrei essere  quanto più inclusiva possibile rappresentando quanta più pluralità. Il mio goal è che, sfogliando il libro, il fruitore possa riconoscersi, trovare la propria rappresentazione, il  proprio “familiare”: spesso i soggetti non si vedono in volto, non per censura o auto-censura, ma perché mi interessa attirare l’attenzione su un dettaglio, su un simbolo, che in qualche modo possa far sviluppare un pensiero e magari una connessione con l’immagine da parte di chi guarda accompagnandolo magari a sviluppare una propria analisi. Il progetto è totalmente in bianco e nero, e questa è una novità dell’ultimo periodo: quando avevo iniziato a scattare per il progetto di tesi, oramai un anno fa, le immagini erano a colori. Andando avanti, mi sono resa conto che avevo bisogno di sottolineare un aspetto importante: la fotografia è sempre soggettiva, nel mio caso persino costruita, ergo, seppur prenda ispirazione da storie reali di persone reali, non può rappresentare la realtà, ma necessariamente la mia visione e interpretazione di questa. Il bianco e nero mi aiuta a sottolineare proprio che quello che si vede nelle mie immagini non è appunto la realtà, poiché la realtà che noi vediamo ed esperiamo è a colori. 

Chiara Lombardi, It disappears slowly, 2021, tecnica digitale, fine art cotton paper Hahnemühle, 20 x 30 cm – courtesy of the artist
Chiara Lombardi, It disappears slowly, 2021, tecnica digitale, fine art cotton paper Hahnemühle, 20 x 30 cm – courtesy of the artist

E.S.: Recentemente hai curato la mostra “Malùra” di Simona Fredella, che ha inaugurato il 13 luglio 2021 alla Sala Causa a Capodimonte (NA), come è stata questa esperienza nel campo della curatela? 

C.L.: Sono stata chiamata a curare la mostra “Malùra”, ed è stata una sorpresa! L’artista Simona Fredella è una mia cara amica, ed ha avuto questa bellissima occasione di portare in mostra “Malùra” al Museo di Capodimonte in occasione del CTF, il Campania Teatro Festival, uno dei più importanti festival di teatro nazionali. È stato per me un modo per mettermi in gioco in questo campo, occupandomi perlopiù di offrire sostegno all’artista. Insieme abbiamo cercato di sviluppare il progetto in modo che rispondesse ad una commissione ma anche ad un bisogno personale dell’artista. Dal momento che con Fredella mi lega una forte amicizia, è stato molto semplice riuscire a trovare un punto di incontro fondamentale alla perfetta riuscita della mostra. Per me è stato necessario ascoltare che cosa l’artista avesse bisogno di tirare fuori, e in che modo farlo solo così, insieme, abbiamo potuto dare vita a “Malùra” (dal termine napoletano che tradotto è “perdizione, rovina, stato di grave dissesto”). In questa  mostra è il corpo ad andare in malora. Protagonisti sono, infatti, i corpi di alcuni dei più noti autori/drammaturghi napoletani dal limitare dell’Ottocento fino ai giorni nostri, ritratti in un inusuale processo di de-composizione. L’intento dell’artista è cercare di cristallizzare nel disegno la forza creatrice dell’universo immaginativo di ognuno di loro, che pulsa attraverso la materia organica divorandola, riplasmandola continuamente. Quelli degli autori sono corpi infestati, assediati ed insidiati da entità che essi stessi hanno ossessivamente evocato durante la loro esistenza, avendo amato, desiderato, sofferto; avendo vissuto immaginando e, dunque, avendo scritto. Pelle, ossa, viscere si decompongono per poter essere ricomposte in un modo nuovo. Queste rovine putrescenti, ma fertili, gravide dei loro stessi parassiti, continuano a rigenerarsi nella distruzione. Il corpo “d’autore” continuerà a cambiare forma e potrà essere ri-scritto, o meglio, ri-disegnato da quegli stessi fantasmi che ora sono finalmente liberi di manifestarsi: nel ghigno sfrontato di un teschio che affiora da una crepa nel tufo; nell’ombra che per un attimo oscura i frammenti di uno specchio infranto; in un soffio che muove appena le tende in una stanza di un antico palazzo, di notte. Tra quel che resta dei loro corpi, si potranno riconoscere: Eduardo Scarpetta, Raffaele Viviani, Eduardo de Filippo, Roberto De  Simone, Manlio Santanelli, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Ruggero Cappuccio e Mimmo Borrelli. Autori-attori, questi, dello spettacolo senza fine della rovina che va in scena nel ventre di Napoli: enorme corpo di madre in bellissima, struggente malùra eterna. Insieme abbiamo poi abbozzato un allestimento di cui vado molto fiera, ma essendo la mostra inserita all’interno del contesto de CTF, come potrai immaginare, della parte più tecnica (pannelli, illuminazione et similia) si sono occupate altre persone, di modo che tutte le mostre coinvolte avessero un percorso simile e continuativo. 

Simona Fredella, Mimmo Borrelli, 2021, tecnica mista, fine art cotton paper, 75×105 cm – courtesy of the artist

E.S.: Fin da bambina hai avuto una propensione per le immagini: seppur ancora “senza strumenti” analizzavi il mondo e i corpi attorno a te attentamente. La strada verso il mezzo fotografico è stata lineare? 

C.L.: Sì, per me è stato un percorso lineare, anzi naturale, più che altro. Sono stata fortunata: in casa ho sempre avuto macchine fotografiche appartenenti a mio padre. Era lui che, durante le nostre gite di famiglia, si occupava di immortalare e registrare i ricordi. Quando mi ritrovavo sola a casa, sin da piccina, passavo il tempo a fotografare e spesso a fotografarmi, scrutando il mio corpo e pian piano analizzandolo. Col tempo, quello che era un gesto totalmente infantile e giocoso si è trasformato in una ricerca autobiografica; tanto che poi quando mi son trovata a dover scegliere il mio futuro alla fine del liceo, nonostante inizialmente avessi altre idee, ho deciso di puntare su quella che era sì una passione ma anche e soprattutto un metodo di espressione che mi faceva sentire finalmente capita. Tante volte mi sono domandata se questa scelta fosse effettivamente stata quella giusta, ma ogni volta mi trovo a dovermi rispondere di sì, perché quello che faccio lo amo immensamente, ed è così naturale ed  assolutamente necessario, che non potrei esistere senza. 

E.S.: Da sempre combatti contro la censura: questa tematica, e lotta, sembra essere urgente e sotto i riflettori da parecchio tempo ormai: in che modo secondo te la situazione sta cambiando? O migliorando, forse? 

C.L.: Parlare di censura è necessario, sempre. Non credo che le cose stiano migliorando, anzi io le trovo parecchio peggiorate. Ad oggi, con i social network, questa sembra essere diventata ufficialmente una tematica di dominio pubblico; credo che lo sia sempre stata, ma è innegabile che sia spesso stato trattato come un argomento tabù. Inoltre, durante la scrittura della tesi, mi sono resa conto che la maggior parte del materiale che raccoglievo era americano, o comunque in lingua inglese. In italiano non c’era niente di recente, a parte dei testi autoprodotti, di scrittori decisamente di nicchia e “controcorrente”. Credo che quella alla censura sia una lotta assolutamente urgente: è necessario rendersi conto che ogni tipo di censura è dannosa per l’essere umano, che può portare a dei gravi danni psicologici. Credo sia assolutamente ingiusto che vengano imposte delle limitazioni alla libertà individuale e di espressione. (Al link potete trovare in forma di pdf scaricabile “It disappears  slowly”, la tesi che raccoglie in maniera più approfondita questa tematica)

E.S.: Più che di bellezza, mi piace parlare di libertà” hai affermato in una tua passata intervista. Difatti, oltre che una delicatezza disarmante, l’aspetto preponderante che le tue foto comunicano è l’identità specifica particolare dei soggetti. Ciò rende i tuoi scatti personali e preziosi. Ritrarre la libertà è sempre stato l’obbiettivo della tua ricerca, o è un’idea che hai maturato nel tempo? 

C.L.: Sono contenta che tu abbia citato proprio questa frase, che ho detto qualche tempo fa. Mi fai riflettere sul fatto che già il tema della libertà, nella mia ricerca, era insito in me da tanto, anche senza averlo dichiarato consciamente. Sto riflettendo molto su questa tematica, che al momento è ciò che mi preme di più, soprattutto a causa dell’esperienza del lockdown. Per me è una tematica che al momento mi è urgente essendo strettamente collegata alla mia sfera personale – tutto parte sempre dalla sfera emotiva privata, e poi cerca di espandersi all’esterno (d’altronde se non ci fosse questo slancio verso l’esterno sarebbe un monologo assolutamente privo di un vero senso: a me interessa andare oltre). Ricordo che da piccina mi piaceva dire a tutti che ero una bambina libera, e che crescendo sarei diventata una donna libera, sola, indipendente. Crescendo, ho scoperto che la libertà non è questa, ma molto altro, e che anzi ha tante forme diverse e tanti nomi diversi per ognuno. Ora sto ricercando tutte queste libertà, sto provando a comprenderle e di farle mie in qualche modo. 

E.S.: Il rapporto con i soggetti è fondamentale nella tua pratica fotografica, mi parleresti di questo aspetto? 

C.L.: Mi viene difficile considerare le persone che posano per me come meri soggetti o “modelli” poiché ci tengo a non mettere un muro tra me e chi fotografo. Per me la fotografia è un percorso naturale ed intimo e per questo si costruisce insieme, come se fosse un gioco in cui ognuno ha più di un ruolo. Quanto più l’atto è liberatorio e pieno di fiducia per entrambi, tanto alla fine risulterà una buona fotografia. Dunque, il rapporto con le persone per me è assolutamente necessario ed importante: ho bisogno di instaurare un contatto con la persona che fotografo, che molte volte si trasforma in un rapporto di amicizia reale proprio perché quello che più amo fare è conoscere le persone, conoscere altri essere umani. Sono estremamente innamorata degli esseri umani, forse è a causa di questo amore sconfinato che io provo per loro che spesso quando mi deludono arrivo a detestarli (ride). Voglio conoscere, perché sono molto curiosa e aperta, e ho sempre bisogno di andare oltre i miei pensieri, idee e  conoscenze. Per fare una buona fotografia è necessario “avvicinarsi” alle persone che  vengono fotografate (non è sempre vero ma nel mio caso è decisamente così): l’obiettivo al quale aspiro è che la persona che ho fotografato, guardando la mia rappresentazione di sé, si riconosca. È pura magia.

Chiara Lombardi, Cosmo, 2021, tecnica digitale, fine art cotton paper Hahnemühle, 45×30 cm – courtesy of the artist

E.S.: La capacità così fine di rappresentare i corpi, e con così tanta franchezza, ti ha mai creato problemi?

C.L.: Devo dire che è stato raro. Credo nel mio piccolo di riuscire ad esprimere nel modo più semplice ed essenziale quello che ho bisogno di dire con la mia fotografia. A parole non sono brava, ho molti pensieri che si accavallano e spesso mi è difficile riuscire a tirarli fuori nella forma che avrei voluto. Invece con la fotografia riesco ad essere essenziale. Mi sono sentita capita, da chi le guarda… cosa che non mi era mai capitata in altri modi. Anche per questo  motivo, da adolescente, ho deciso di puntare così tanto sulla fotografia, perché fino a quel momento non mi ero mai sentita compresa. Mi veniva detto spesso che non sapevo parlare, che non scrivevo bene, che mi esprimevo male insomma. Riuscire, attraverso la mia fotografia, ad esternare in modo semplice, sensazioni complesse è quello a cui aspiro. 

Chiara Lombardi, Dune, 2020, tecnica digitale, fine art cotton paper Hahnemühle, 40×40 cm – courtesy of the artist

E.S.: Fotografando gli altri cerchi anche qualcosa di te? È un tipo di fotografia introspettiva la tua, anche se rivolgi l’obbiettivo verso gli altri? 

C.L.: È una fotografia introspettiva perché, come ho detto in precedenza, è una fotografia soggettiva. Essendo per me un fondamentale metodo di espressione, parto necessariamente da una riflessione personale e successivamente cerco di andare oltre a questo. Quindi, sì, cerco tanto di me negli altri, e apprezzo anche l’opposto. Per me è sempre un’azione estremamente paritaria. 

Chiara Lombardi, I’m the earth and you’re the sun, 2016, tecnica digitale, fine art cotton paper Hahnemühle, 10×10 cm – courtesy of the artist

E.S.: Alcune delle tue fotografie sembrano coronamenti di “healing processes”, tanto è forte il senso di pace, di sospensione, che i soggetti comunicano. Immagini le tue foto anche in un contesto di guarigione interiore? 

C.L.: La fotografia per me è stata un processo di guarigione, e lo è sempre, tanto che mi piacerebbe prima o poi poter insegnare ad altri a fare del mezzo un’occasione di crescita e comprensione di sé. È assolutamente possibile parlare di “healing process” anche dal punto di vista dei soggetti, perché è chiaro che mettersi davanti ad una macchina fotografica, e soprattutto davanti ad una completa sconosciuta, non è certo facile ed è un lavoro che innanzitutto inizia in sé stessi e si estende solo successivamente all’altro. Io cerco di arrivare al momento dello scatto con naturalezza, perché è un momento molto delicato. Quella che ricerco non è sicuramente la posa, cerco di far concentrare i soggetti su qualcosa, li distraggo dalla foto. Scattare ed essere fotografati è un processo di apertura e liberazione che può aiutare molto. Per quanto mi riguarda credo moltissimo nel potere terapeutico della fotografia. Io stessa ho iniziato con l’autoritratto e credo sia fondamentale farsi fotografare per arrivare ad una comprensione del proprio corpo e del proprio sé, lo consiglio molto.