ALICE FALORETTI X FEDERICO PALUMBO
Soglie
A cura di Elena Bray
Opening: 16 giugno 2022, ore 18-21
16 giugno 2022 – 31 luglio 2022
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In occasione della mostra personale da Mucho Mas di Alice Faloretti, a cura di Elena Bray, ho scambiato quattro chiacchiere con l’artista. La conversazione che ne è venuta fuori è particolarmente densa, come la formalizzazione del suo lavoro ma, sempre seguendo l’immagine che proviene direttamente dai suoi quadri, anche molto leggera e luminosa. Abbiamo cercato di spaziare quanto più all’interno della sua ricerca, e di analizzare alcuni punti specifici.
Federico Palumbo: Ciao Alice. Prima di tutto vorrei partire dalla mostra da Mucho Mas, curata da Elena Bray: vorrei mi parlassi del concept generale del progetto e dei lavori esposti.
Alice Faloretti: Ciao Federico, l’idea della mostra è nata diversi mesi fa insieme a Elena Bray, giovane curatrice di Torino che negli ultimi anni ha cominciato ad interessarsi al mio lavoro suscitando stimolanti discussioni, che hanno poi portato a sviluppare questo progetto. Abbiamo pensato a Torino come città in cui realizzare la mostra, sia per il legame con Elena sia per l’attenzione presente per l’arte contemporanea ed i vari spazi indipendenti che si stanno contraddistinguendo in quest’ultimo periodo.
Fin da subito ha attirato la nostra attenzione lo spazio Mucho Mas, gestito da Luca Vianello e Silvia Mangosio, per la linea di ricerca, l’estetica contemporanea e la varietà delle mostre realizzate; anche il fatto che accogliessero progetti prevalentemente installativi o legati alla fotografia ha contribuito ad aumentare il nostro interesse, come stimolo per nuove modalità di approccio al lavoro. Mi è stato infatti proposto di pensare a delle installazioni che potessero interagire con l’ambiente e, nonostante non avessi particolare familiarità con questa modalità formale, ho pensato che fosse l’occasione giusta per sperimentare qualcosa di diverso. Lo sfocamento dei confini, il continuo mutare della forma, la coesistenza di molteplici frammenti paesaggistici e temporali, la sovrapposizione in grado di creare nuovi orizzonti interpretativi, la fluidità della pittura come quella dei sogni: questo è il filo rosso che sta alla base della mia ricerca e che collega le opere in mostra.
Dopo varie ricerche e continui confronti con Elena, ho deciso di rielaborare il senso del mio lavoro cominciando con Distesa di ombre, un’installazione su carta di grandi dimensioni collocata davanti alla vetrata, in modo da indagare la fluidità dei confini non solo nella materia pittorica ma anche in relazione allo spazio e alla luce. La luce esterna, naturale, che si sposta e muta d’intensità nel corso della giornata, diventa quindi l’artefice in grado di creare giochi di ombre, di accendere o spegnere le cromie, di filtrare nelle fibre del supporto ritagliandone le sagome fino a proiettarsi idealmente sull’opera L’isola degli ibis posta frontalmente.
Anche il secondo intervento installativo ripropone il concetto di sconfinamento grazie al materiale trasparente da cui è costituito, su cui è sovra-impressa una diapositiva (stampata in scala maggiore) realizzata negli anni ‘80 da mio padre, esibita in questo contesto insieme alla tela Come un sogno che non dirigo. La diapositiva sovrapposta alla tela, frantuma e unifica la visione allo stesso tempo, ripercorrendo in un certo senso il processo di costruzione che adotto solitamente per i miei lavori pittorici.
Un altro aspetto che ci interessava particolarmente, era quello di riuscire a creare un ambiente che in qualche modo avesse la capacità di immergere il visitatore, che lo proiettasse in un altro mondo generato attraverso la mia pittura, avvolgendolo con un’atmosfera intensa, forte, ma che nonostante questo non risultasse opprimente, piuttosto che sollevasse in una dimensione altra, sospesa e in continuo mutamento.
F.P.: Mi sembra quindi di capire che sia partita dall’analisi della tua ricerca per ampliarla a livello spaziale. Guardando le tue opere quello che emerge maggiormente (per lo meno fin da subito) è proprio la sovrapposizione fra più dimensioni: il quadro come finestra assume un ruolo diverso perché si affaccia su più ‘cose’. La vedi come evoluzione questa mostra? O comunque come possibilità di ampliare questioni che prima d’ora si svolgevano solo all’interno della tela?
A.F.: Per la progettazione di questa mostra mi sono molto confrontata con lo spazio e con la curatrice, cercando di capire come far emergere aspetti diversi del mio lavoro, mettendo a fuoco le direttrici fondamentali e i temi messi in gioco partendo dal paesaggio, in quanto topos centrale della mia ricerca. La dimensione scenografica, talvolta presente nella costruzione dei miei dipinti, rappresenta anche in questo caso un valido riferimento a cui guardare, specialmente per la scomposizione degli ambienti in più livelli (come fossero quinte) e la collocazione nello spazio dei vari oggetti, come per esempio la presenza della diapositiva sovraimpressa in relazione alla tela sul fondo della stanza o la carta allestita sulla vetrata ad un’altezza diversa dal resto.
Hai detto bene, attraverso le installazioni ho come ampliato le mie tele nello spazio, estraendone dei piani in modo da renderli del tutto autonomi. In un certo senso è come se avessi ripercorso l’intero processo di creazione dell’opera a ritroso, verso l’idea originaria; ma non si tratta di un ritorno, bensì di un’ulteriore trasformazione, di un’altra cosa ancora. Il processo di composizione dei miei dipinti, consiste infatti nell’accostamento e nella sovrapposizione di immagini provenienti da diverse fonti, che scompongo ed assemblo ripetutamente. Perciò sì, credo che questa mostra abbia aggiunto qualcosa di interessante alla mia ricerca.
F.P.: Un altro elemento che mi affascina guardando i tuoi lavori è l’utilizzo del colore. In particolare, la fusione fra luce e ombra che sembra davvero in grado di ampliare (o restringere) – ancora una volta – la dimensione spaziale e aumentare le possibilità del bidimensionale. Anche in mostra, ascoltandoti, mi sembra di capire ci sia stato un passo oltre tali questioni, decidendo di giocare direttamente con la luce e l’ombra ‘reale’.
A.F.: I miei dipinti nascono direttamente dal colore, da grandi campiture diluite che formano la struttura su cui poi verrà costruita la narrazione; dopodiché arriva il disegno. I contrasti di luce e ombra che utilizzo non rispondono alle leggi naturali, giocano piuttosto a scandire i vari livelli di profondità dell’immagine, attraverso un’alternanza di contrasti e sfocature, di densità e trasparenze. Gli oggetti sembrano non avere un peso, i cieli si moltiplicano, i riflessi riverberano all’infinito, giorno e notte convivono in un’unica visione.
La grande opera su carta in mostra, Distesa di ombre, ha richiesto un utilizzo del colore pensato in funzione della luce naturale con cui avrebbe poi dovuto rapportarsi, quindi caratterizzato da una certa intensità, brillantezza e trasparenza. Trattandosi di una carta per pittura ad olio, quindi dotata di una grana già di suo abbastanza spessa, ho dovuto dosare con cautela l’utilizzo dei toni facendo attenzione a non sovrapporre troppi strati, conservando in certi punti la superficie della carta originale per ottenere maggiori contrasti; questo per permettere alla luce di filtrare, anche se delicatamente, attraverso di essa. Ho lavorato meno sulla profondità, sulle luci e le ombre con la pittura, proprio in funzione delle luci e delle ombre naturali, che avrebbero poi dovuto completare la scena rappresentata ed agire di conseguenza, in modo diverso, anche sullo spazio espositivo. Trovo interessante questa interazione tra ambiente circostante e opera.
F.P.: Guardando il tuo portfolio mi pare di capire che è tuo solito lavorare per cicli pittorici, serie che in qualche modo vanno ad analizzare tematiche specifiche. Ad ogni modo, ciò che salta all’occhio è l’attenzione che poni su questioni nevralgiche che animano la pittura da sempre: materia e forma; movimento e frammentazione. Vorrei approfondire il discorso con te.
A.F.: Solitamente nel momento in cui ho un’idea precisa realizzo vari lavori più o meno contemporaneamente o comunque in un lasso di tempo ravvicinato, raccogliendoli poi sotto lo stesso ciclo. Le tematiche che sto portando avanti sono emerse nel tempo direttamente dalla pittura, da ciò che scaturiva in modo spontaneo e abbastanza ossessivo, diciamo, dai miei disegni e dipinti, concetti che si evolvono sempre insieme al processo pittorico. Ma ciò che mi interessa più di ogni altra cosa è la pittura stessa. Il dialogo che si va a creare con la materia appena iniziato un lavoro, il condurla e il lasciarsi condurre, le continue scoperte, gli imprevisti e la necessità di continuare ad approfondire. Nel momento in cui dipingo il pensiero progredisce insieme al movimento della materia, dalla forma al contenuto e viceversa, dall’equilibrio tra i pieni e i vuoti, tra la densità e la leggerezza, tra i segni e le cancellature, fino ad evocarne il senso intrinseco. Nulla vive indipendentemente dal resto, tutto è mutevole e connesso.
Gli scenari paesaggistici che vado a realizzare, sono costruiti attraverso l’intreccio di episodi personali, collettivi, inventati, con influenze dalla storia dell’arte o da racconti, il tutto trasfigurato in una dimensione intrinsecamente mentale. Sono ambienti ambigui, mondi che sconfinano oltre il loro stesso limite, animati da un movimento continuo, fluido, dove talvolta figure dalla parvenza umana o animale affiorano e si fondono nel magma indistinto della materia. Le rappresentazioni risultano frammentate, a tratti sfocate e a tratti perfettamente riconoscibili, in cui il fruitore è chiamato ad immergersi per collegarne le parti, completandole con la propria soggettività.
Mi interessa la convivenza di una pluralità di situazioni, la connessione tra eventi quotidiani e dimensioni passate, tra realtà possibili, parallele, ma distanti nel tempo e nello spazio, in cui esperienze intime e visioni sconosciute si compenetrano generando nuove possibilità.
F.P.: Reale e immaginifico. Qual è il confine (se c’è) fra queste due dimensioni? E come la pittura, e in generale l’arte, possono offrire una visione differente dove riescono a saldarsi insieme?
A.F.: La pittura ha una sua propria dimensione, in cui il dato reale e quello che di immaginifico ne emerge, divengono necessari l’uno per l’altra, assumendo lo stesso valore. Come sentiamo reali i sogni nel momento in cui li stiamo vivendo, ciò che vorrei realizzare nei miei lavori è “una parvenza di realtà sufficiente a fornire alle ombre dell’immaginazione una volontaria e momentanea sospensione del dubbio, la quale costituisce la fede nella poesia”, citando Samuel Taylor Coleridge, il quale in questo caso, sottolinea come il testo poetico debba contenere degli elementi tali per cui il lettore possa perdersi nella finzione, accantonando momentaneamente le realistiche perplessità che potrebbero sorgere. La costante attenzione verso i dettagli quotidiani è fondamentale, in quanto fonte primaria di ogni mia possibile rappresentazione, da cui nascono visioni immaginarie, meraviglie fugaci, piccole rivelazioni, che cerco di trattenere nella memoria e nei dipinti.
Considero l’immaginazione un punto di vista della realtà e penso che l’arte utilizzi i linguaggi che le appartengono per mostrare, in modo diverso, le infinite sfaccettature di questa realtà.
F.P.: Il paesaggio, l’utilizzo e l’importanza del colore, nonché le dimensioni che si creano all’interno del tuo lavoro mi riportano alla mente alcuni dipinti del periodo colorista veneziano; in particolare Giorgione. Ma anche El Greco, alcuni lavori di Leonardo (la Vergine delle Rocce fra tutte) e di Peter Doig. Quali sono gli artisti che più ti hanno influenzato – direttamente o indirettamente – o che comunque hai studiato maggiormente?
A.F.: Oltre agli artisti che hai citato ed il colorismo veneziano per il rapporto con il colore, ci sono anche Pieter Bruegel il Vecchio, Paul Bril, Caspar David Friedrich, alcuni esponenti della Hudson River School e dei simbolisti, Max Ernst e Annie Lapin.
F.P.: Hai da poco partecipato a un’altra mostra a Brescia, Girl Talk: mostra collettiva a cura di Ilenia Rubino, a Palazzo Monti (Brescia). Mi piacerebbe ce la raccontassi.
A.F.: La collettiva comprende alcuni lavori realizzati durante la residenza a Palazzo Monti, a cui ognuna delle artiste ha partecipato: io e Oksana Tregubova a Gennaio 2022; Sara Birns e Delphine Hennelly a Maggio 2022. La mostra, allestita nelle sale espositive di questo meraviglioso palazzo, nasce dalla possibilità di dialogo tra le nostre opere, realizzate ad olio, acquerello e a pastello, molto diverse l’una dall’altra nella resa stilistica, ma con un nesso di fondo in grado di collegarle tutte: la relazione tra essere umano, la propria identità interiore e l’ambiente naturale che non solo lo circonda, ma di cui è inevitabilmente e profondamente parte. La mostra si districa tra espressioni di moti interiori nei corpi come nella natura, da visioni delicate ad altre più violente e stranianti.
F.P.: Dopo la personale da Mucho Mas hai altri progetti in cantiere? Può svelarci qualcosa in merito?
A.F.: La mostra dei finalisti per il Premio Cairo e un solo show ad Art Verona ad ottobre, a inizio 2023 personale alla galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea.
F.P.: Ultima domanda (utopica): se avessi spazio, budget e possibilità illimitate, che cosa realizzeresti?
A.F.: Non lo so, ma sarebbe sicuramente qualcosa di grande.