ALESSIO MOITRE
Di dritto o di rovescio, finisco che ci torno a parlarne, per quanto sovente cerchi di mimetizzarmi in società. E di recente, di arte contemporanea, ne ho trattato con aspiranti artisti, un panettiere, un ingegnere, un dentista, un libraio ed un passante che ramingo, adocchiava vetrine e cercava in zona Vanchiglia “qualcosa di creativo”. Di solito recedo da dichiararmi, faccio come i medici che si rivestono di ogni professione pur di non essere scocciati nel loro tempo libero. Ma quando capita, dopo le cortesie civili necessarie e l’aver illustrato che la mia è una professione contorta, avviticchiata intorno a svariati stereotipi, soventissimo mi si domanda: “Ma chi compra da te? I collezionisti come sono fatti?”. Con un lazzo, in più casi, ho ribattuto che neanche io ne sapevo niente e che appena si fossero affacciati alla mia porta, gli avrei fotografati eppure, a rifletterci, le mie come le altre parole, emesse anche da bocche illustri, se ben ascoltate, ammettono ciò che sarebbe saggio camuffare: che i collezionisti italiani sono, per giocare su un espressione anglofona, “sulla strada del dodo”, uccello che pagò circa quattrocento anni fa l’invasione europea del proprio habitat, con l’estinzione. Esistono e si sente narrare nelle combricole, che siano un numero imprecisato ma non elevato, che si muovano perlopiù in piccoli gruppi, raramente in più di quattro, maschi in maggioranza ma femmine ancora presenti, forse perfino in aumento. Qualcuno, fonti di amatori e vedettanti, sostengono che non prendano parte ad inaugurazioni ma si riescano ad acclimatare solo in incontri a numero chiuso, meglio ancora in un faccia a faccia con un gallerista o una gallerista, un artista o un curatore. Restii alla nomea, vengono citati in conversazioni a bassissima voce, mai esibiti. Un metodo scientifico per allontanarne la presenza pare sia il pronunciarne nome e cognome, atto sacrilego che segue un anatema impossibile da sciogliere. Il fatto stesso che siano evocati ne cancellerebbe quel numinoso senso di presenza, nonché li allontanerebbe alla pari del caudino o’ pernacchio di Eduardo di Filippo nel film “L’oro di Napoli”(rivederne la scena è un trattato di filosofia applicata). Sul numero, gli esperti, frase precotta, si dividono. In ogni città se ne sono accasati un certo numero, che varia anche a seconda delle suggestioni, un gruppetto migra e lo si può incasellare come stagionale, appaiono soprattutto alle fiere, ai grandi eventi. Notizie mai di prima mano ma lavorate ne attestano una ventina per ogni milione di abitanti, sempre oltre i sessanta d’età. Dati incerti invece accompagnano le previsioni delle nuove nidiate, i calcoli sugli under quaranta sono intorbidati dalle imprecisioni. Questo pubblico novello vien descritto, da riviste di settore e tecnici, come competente, interessato, cosmopolita, di ambo i sessi, curioso, variegato, acculturato, ben vestito, interconnesso, bi-tri-quadrilingue e altri intriganti termini che alla fine dei conti significano semplicemente una mazza! In attesa che si sobbarchino l’onere del mantenimento dell’arte nostrana ed internazionale, si continua a scrutare il cielo alla più o meno disperata ricerca degli stormi delle grandi vendite, perpetrando il mito dei tempi che furono. In particolar modo, il racconto degli anni novanta è utilizzabile con ogni categoria di pubblico, meglio se poco edotto delle dinamiche del settore ma moderatamente affascinato. I collezionisti, all’epoca, erano svariati, fonti riportano che non vi erano ore in cui non frequentassero una galleria, che la gioia caratterizzasse ogni atto e che l’ottimismo facesse salire compensi e buonumore. Erano soggetti intrigati dal senso stesso dell’appartenere ad una svolta sociale, dove l’arte divenisse materia comune, tanto da nobilitare le dimore della rampante Italia. Nel cuore dei novanta il Pil cresceva quasi al tre percento annuo, il paese era al quinto/sesto posto nella scala delle potenze mondiali, i nuovi mercati promettevano di ampliarsi e si procedeva di mostra in mostra, si frequentava uno studio prima di andare in uno studio per poi transitare per un altro studio e gli avanzi delle tasse o i compensi “in eccesso” li investivi in un quadro. Per un milione di lire riportavi alla magione una gratifica soddisfacente. E poi tutto si è incriccato. Non è avvenuto per iattura o per ominoso presagio avveratosi di qualche cornacchia. Si è deciso infatti che all’uomo curioso, abbozzo del collezionista, servisse un abbondanza illimitata, che il suo suo frugale senso dell’estetica fosse ormai di una parsimonia superata, più incline alla povertà che all’espansionismo commerciale. Facilitarne il compito lo ha reso arrendevole a qualsivoglia stimolo di scoperta. Gli ha permesso di accedere a tutto senza sguazzare nel fango per trarne su un indizio di bellezza. Ed ovviamente, anche loro, i collezionisti, sono cambiati. Erano camminatori dal passo lungo, potevano passare intere giornate a scarpinare, rampare da uno spazio all’altro, con la sola certezza istintiva da cane da fiuto, che lì, magari un poco più in là, avrebbero cavato un’opera adeguata al loro interesse. Ci sono ancora, ma sono davvero unicorni e trottano sempre meno, a discapito delle realtà di minore visibilità, che sempre più si accozzano alle istituzioni o alle gallerie di maggior prestigio, per sperare di strapparne una mollichina di successo, ingegnandosi in calcoli da patella. Inevitabile l’impoverimento dell’offerta e l’ancor maggior disinteresse nella navigazione alla ricerca di nuove suggestioni. Si rimane al costeggio, gettando l’occhio sempre a riva. Oggi, in definitiva, esistono tre specie di collezionisti. I già citati “Innominabili”, casseforti del benessere artistico, in genere avanti con gli anni ma per benedizione italiana, ancora pimpanti. Numericamente sempre meno comunque. Considerati fondamentali dalle gallerie e dal bel mondo dell’arte nostrana, vengono contattati prettamente per telefono, mantenendo così un rapporto intimo che la presenza, soprattutto in questi ultimi tempi, non ha permesso con regolarità. Alcuni possiedono una mail, altri ancora millantano di averne una ma senza quasi mai rispondere ad un solo messaggio. Nei sogni profondi dei galleristi, possiedono un portafoglio incalcolabile. Su di loro girano leggende d’alta letteratura. “I promettenti” rappresentano un nucleo poco omogeneo ma di diverse età ed estrazioni sociali. Sono sulla scena da non più di dieci anni e si sono accostati alla creatività per curiosità o invito di un conoscente. Difficile affermare se proseguiranno nel percorso, di certo approcciano il settore con la frivolezza dei novelli. Vivono l’ambiente artistico con una sana insicurezza, dettata anche dalle loro disponibilità di spesa, che variano fino ad un massimo di cinquemila euro (chi sfiorasse tale cifra ha in corpo il virus trasmissibile dell’accumulo. Potenzialmente adatto all’avanzamento di classe). Tutti sono collegati alla rete e vengono rintracciati con facilità. Simpatia, almeno personale, riservo agli “occasionali”. Spesso ignari dei meccanismi dell’arte visuale, si riservano il piacere improvviso di un acquisto. Possono compierlo una volta nella vita o proseguire per interesse, con pochissimi pezzi amati, dal prezzo contenuto. La carta e la piccola pittura sono di loro competenza, l’amano con la leggerezza necessaria ad apprezzare la scoperta. Sono, per le gallerie, il potenziale nuovo bacino, il meno intrigante ed applicabile a breve tempo ma senza alcun sospetto, sono i proprietari umorali della società attuale. Loro, a differenza delle altre due categorie, sanno più di popolo. È il gruppo più complesso da comprendere, il meno frequentato dal sistema artistico attuale. Un peccato ma i risultati non lasciano dubbi. Alla faccia del dodo.