CHIARA FANTACCIONE X VIRGINIA VALLE
Chiara Fantaccione (Terni, 1991) concentra la sua ricerca artistica sulla creazione e l’utilizzo dell’immagine digitale nell’era contemporanea, sovrapponendola e contrapponendola a quella reale.Nelle sue opere possiamo trovare richiami alla storia dell’arte, elementi kitch, dispositivi digitali e immagini fotografiche, in dialogo costante con l’esperienza visiva dello spettatore. Dal 2017 fa parte dell’artist-run space romano Spazio In Situ con cui organizza anche mostre collettive di artisti italiani e stranieri. Nel 2021 ha partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero, tra cui primitivo, a cura di Valentina Muzi e Simone Cametti alla Shazar Gallery di Napoli; Made In Italy a cura di Porter Ducrist all’Espace TILT di Renens in Svizzera e IperSitu, a cura di Daniela Cotimbo presso Spazio In Situ a Roma.
V.V.: Nella maggior parte dei tuoi lavori si vedono immagini o dispositivi tecnologici spesso affiancati a elementi naturali. Come si relazionano per te natura e cultura?
C.F.: L’ovvia contrapposizione tra le due parti le classifica come elementi in cui agisce o meno la mano umana, ma credo questa separazione possa essere molto labile, se si pensa che entrambi i concetti teorici di natura e cultura sono frutto di un’elaborazione data dalla cultura stessa. La scienza è un nodo che consente di passare direttamente dalla natura al suo studio, e quindi alla cultura, come lo è per esempio la percezione visiva, che si basa sulla fusione tra la vista e la mente, quindi tra qualcosa di innato e qualcosa di costruito come l’esperienza. La vista si dice sia il senso primario e credo abbia la necessità di essere costantemente nutrita, a maggior ragione quando si vive in un periodo in cui la sovrabbondanza di immagini ci dà la sensazione di conoscere tutto, di aver già visto tutto. Nei miei lavori l’accostamento di elementi naturali e tecnologici sta a significare proprio il fatto che la realtà e la sua rappresentazione sono percepiti sullo stesso piano, a causa non solo di immagini pubblicitarie, social e televisive, ma anche del largo sviluppo di una cultura fotografica amatoriale, abitudine quotidiana che soddisfa la volontà di possedere e conservare. I nostri dispositivi digitali si pongono come protesi delle quali non percepiamo il punto di inizio, estensione del corpo stesso e della natura umana, che contribuiscono ad accrescere esponenzialmente la nostra esperienza visiva.Gli elementi forniti nei miei lavori sono facilmente riconoscibili, così da portare alla mente dello spettatore qualcosa che già conosce, che ha già visto. Il prato verde è il minimo comune denominatore di qualunque paesaggio immaginato, i monitor ci riportano a una dimensione che ci fa sentire a nostro agio, in cui l’immagine diventa tangibile e acquisibile dall’osservatore: la rappresentazione di un soggetto sembra più reale del soggetto stesso, poiché è facilmente a portata di mano, selezionata, circoscritta, e distribuita sotto i nostri occhi. Talvolta la rappresentazione si tramuta in simulazione, volontà di ingannare la nostra percezione come quando si dipinge una parete di azzurro cielo o si ascoltano i suoni della natura fingendo di essere altrove. In Romantic base camp, per esempio, il paesaggio è ricreato all’interno di una tenda da campeggio attraverso l’utilizzo di un tappeto verde effetto prato ed una sunset lamp, oggetti kitsch di arredamento facilmente acquistabili online per simulare artificialmente le sensazioni che andrebbero ricercate all’esterno della nostra comfort zone. Il titolo, infatti si riferisce da una parte al cliché del tramonto come elemento romantico e dall’altra, ironicamente, alla ricerca spasmodica del sublime degli artisti romantici, dei quali rimane la volontà di dominare la natura, possederla, attraverso semplici simulacri.
V.V.: In Specchio (2018) e Every time i look at you i fall in love (2020), sembra esserci l’intenzione di umanizzare il dispositivo tecnologico. Ci racconti questi lavori?
C.F.: In alcune delle mie opere gli strumenti per la produzione di immagini diventano il soggetto stesso dell’installazione. Mi interessa capovolgere il punto di vista, così che da operator diventino spectrum, soggetto immortalato. In Specchio, per esempio, il proiettore riflette la propria immagine fotografica, in una sorta di autocompiacimento che ne annulla la sua funzione originaria, ma ne legittima l’esistenza.In Every time I look at you I fall in love ci sono due videocamere con sensore di movimento poste su due stativi in modo tale da guardare l’una nell’obiettivo dell’altra, che cercano di mantenere il contatto visivo e una sorta di privacy, ma sono costantemente disturbate dal passaggio dello spettatore, che porta la videocamera a muoversi e a seguirlo. Solo quando sono di nuovo sole possono tornare a guardarsi l’una con l’altra. Siamo abituati a una costante violazione della privacy, inconscia o anche volontaria, per cui in questo caso ho voluto ribaltare la situazione, facendo sì che le persone si trovassero dalla parte dell’osservatore, inteso sia come fruitore dell’opera ma anche proprio di “colui che osserva”.
V.V.: Invece le installazioni con ricostruzioni di paesaggi antropizzati suggeriscono l’opposto. In questo caso è la natura ad assumere un aspetto più umano. Le hai pensate come opere di denuncia?
C.F.: In realtà no, nelle mie opere il paesaggio è al pari di un ritratto o di una natura morta, è lo stereotipo ad interessarmi, il fatto che chiunque possa ricostruire mentalmente un’immagine che proviene dal proprio background visivo. Ad esempio, nel Paesaggio (take away) alcuni rotoli di prato sono disposti su un pallet, con il quale vengono effettivamente spediti, e affiancati a una gif creata da un’immagine che si può rapidamente trovare in google cercando la parola “acqua”, simile ad altre infinite immagini. Ognuno può scegliere di assemblare idealmente il paesaggio che più desidera. L’antropizzazione del paesaggio nelle mie opere è trattata dal punto di vista di idealizzazione del soggetto, della creazione del concetto di paesaggio; è questo l’aspetto sul quale vorrei si interrogasse lo spettatore.
V.V.: En plain air (2021) e Nature morte (2021) fin dal titolo ci portano a creare dei confronti con il passato. Come si è sviluppata questa rilettura in chiave digitale della storia dell’arte?
C.F.: Credo che la storia dell’arte, in un modo o nell’altro, sia alla base del lavoro di ogni artista. Non dico sia necessario fare riferimento al passato, ma penso che nessuna produzione in ambito culturale possa prescindere da una ricerca teorica e da una conoscenza di quanto già avvenuto. Nel mio caso la storia dell’arte, come anche la fotografia, mi interessano prevalentemente per i loro generi dettati da criteri, similitudini, elementi ricorrenti che abitano la memoria visiva di chiunque, diventando a volte cliché, come un paesaggio o una natura morta, dalla cui definizione si riesce immediatamente ad evocare un’immagine calzante. Nella serie delle Nature morte, infatti, il gioco è nel richiamo alla tradizione pittorica attraverso lo still life fotografico, in cui il soggetto è uno schermo contenente una foto di natura morta, fotografati entrambi in due passaggi con la stessa tecnica. Quale delle due nature morte è più vera? Il monitor o la composizione che aderisce maggiormente alla nostra esperienza? Non intendo proporre la storia dell’arte in digitale, quanto piuttosto suggerire che i generi artistici sono immortali e, cambiandone gli attributi, il medium o il punto di vista, la nostra percezione visiva farà comunque riferimento a quanto già conosciamo a riguardo.Alcune opere hanno invece un riferimento più diretto con le correnti artistiche, come nel caso di Romantic base camp ed En plein air, in cui cinque iPad compongono uno skyline attraverso l’accostamento di video in streaming presi da webcam paesaggistiche liberamente consultabili online. L’esistenza di archivi di webcam dedicate al paesaggio, da una parte rivela la natura voyeuristica dell’essere umano, dall’altra riporta alla mente il tentativo impressionista di fermare l’attimo, in contrapposizione alla dilatazione temporale dello streaming h24 e alla facile “conquista” data dalla disposizione immediata di immagini.
V.V.: Dal 2017 fai parte dell’artist run space Spazio In Situ a Roma. Di che si tratta?
C.F.: Spazio In Situ è uno spazio indipendente nato nella periferia di Tor Bella Monaca nel 2016, da allora ci siamo ampliati fino a diventare 11 artisti. Il nostro è uno spazio condiviso nel quale però ognuno ha il proprio studio. Questa caratteristica rispecchia anche la nostra pratica artistica, condividiamo infatti obiettivi e idee operative, mantenendo ciascuno la propria individualità: non ci definiamo collettivo, poiché ognuno porta avanti la personale ricerca artistica e mantiene le proprie peculiarità, seppur lo scambio e il confronto siano una costante. Oltre agli studi d’artista, In Situ ha uno spazio espositivo nel quale vengono proposte mostre collettive di artisti italiani e stranieri, con l’ottica di favorire un dialogo tra realtà contemporanee e offrire una visione eterogenea del panorama artistico attuale.
V.V.: Dove possiamo vedere i tuoi lavori? Hai qualche mostra in corso?
C.F.: Attualmente è in corso Materia Nova. Roma nuove generazioni a confronto, presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma, progetto a cura di Massimo Mininni che coinvolge 8 spazi indipendenti romani, con l’obiettivo di porre l’accento sul fenomeno degli spazi indipendenti e delle realtà romane del momento. All’interno della sezione dedicata a Spazio In Situ, che a sua volta è stata curata da Porter Ducrist, abbiamo messo in atto un’operazione che si può definire site specific, presentando opere che prendessero in esame il museo e le istituzioni culturali, così all’antitesi delle realtà indipendenti che quotidianamente viviamo. Ho presentato una foto tratta dalla serie Immagini digitali, intitolata Stock image: Teenage girl and mature woman observing exhibition in historical museum, nella quale catalogo i pixel che compongono un’immagine digitale secondo i codici RGB di ogni singolo pixel. Proponendo una lista di numeri oggettiva ma inutile, elimino completamente la componente visiva, lasciando solo il titolo originale della foto e il suo formato a suggerirne e quindi immaginarne il contenuto. Operazione simile effettuata con il video in mostra Virtual tour: il deposito opere della GAM, nel quale è stata messa in atto una riflessione sulla “censura” applicata alle opere conservate nei magazzini museali, che di fatto sono negate alla fruizione, oltre che sulle rigide regole di riservatezza degli ambienti. Il video che è stato girato all’interno del deposito opere della Galleria d’Arte Moderna è stato quindi tradotto in codici esadecimali che scorrono nero su bianco oggettivi e ordinati, come un magazzino virtuale, ma allo stesso tempo completamente inutili alla fruizione.
Nella mostra una sezione è dedicata a VERA, Roma, 8 spazi, 54 studi, pubblicazione a cura di Damiana Leoni edita da Quodlibet, che approfondisce la tematica creando una mappa degli spazi indipendenti della Capitale.