SCRIVERE È UNA PASSEGGIATA?

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LUCA OLIVIERI X LIDIA FLAMIA

Luca Olivieri nasce a Bologna nel 1990, cresce tra San Benedetto del Tronto e Modena e si diploma nel 2017 alla triennale di pittura all’Accademia di Belle Arti di Macerata con una tesi dal titolo La caverna e la parola in cui la sua ricerca incrociata tra arti visive e scrittura prende forma e si addentra nel sacro. Lo stesso anno vede pubblicata da Montedit la sua prima raccolta di poesie Le caverne. Successivamente si trasferisce a Torino dove partecipa a varie mostre collettive e nel 2020 ottiene il diploma di specialistica in pittura all’Accademia Albertina con Codice – L’Abisso della superficie, un saggio di ricerca poetica che rispecchia in parte il suo attuale percorso artistico.

Foto di Carola Allemandi - Luca Olivieri - courtesy of the artist
Foto di Carola Allemandi – courtesy of the artist

Lidia Flamia: Nel 2019, in occasione della mostra “SOSPESI” presso la Galleria Alessio Moitre, ho avuto modo di entrare in contatto diretto con la tua poetica. Avevi realizzato l’installazione “Il tempio del codice” composta da “La nube della non conoscenza”, “Muro di parole e Lettere – segni, tracce primordiali dell’umano che aprono dimensioni esistenziali per divenire parola viva che indaga in profondità” – opere figlie di una ricerca personale che porta con sé sottili citazioni ai grandi padri della poesia visiva, quali Emilio Isgrò, Vincenzo Agnetti e Barbara Kruger, per citarne alcuni. La parola è protagonista nei tuoi lavori – quali autori letterari sono per te una
preziosa fonte d’ispirazione?

Luca Olivieri: Ho sempre letto tanto, ma il primo romanzo a cui ricordo di essermi appassionato e abbandonato completamente e in maniera diversa fu Il barone rampante di Italo Calvino. Non era il primo libro che apprezzavo, ma depose in me un seme. Avevo dodici anni come Cosimo, il
giovane protagonista che sceglie di vivere la sua vita sugli alberi per fuggire dalle imposizioni. Guarda il mondo da una prospettiva diversa ma non per questo vive al di fuori della società, anzi in alcuni casi arriva a guidarla, consigliarla. Vive in una posizione limbica, tra terra e cielo, materia e
Spirito, dimostrando che non si deve essere per forza idioti o santi illuminati. In un certo senso ripensandoci solo oggi vedo una continuità e un parallelo tra gli alberi e la carta dei libri e dei quaderni. Mi sento un po’ Cosimo, ma i miei rami sono le pagine. Salto di libro in libro seguendo
una sorta di principio di sincronicità junghiano, lasciandomi guidare dagli indizi. Così gli autori arrivano a parlarsi, compenetrarsi, completarsi. Ed è bellissimo.
Oggi leggo molta saggistica e poesia, narrativa un po’ meno. Fondamentali per quanto riguarda la poesia per citarne alcuni sono stati Il matrimonio del cielo e dell’inferno di William Blake, Urlo e Kaddish di Ginsberg, Poesie in forma di rosa e Le ceneri di Gramsci di Pasolini, poi Boris Vian, Baudelaire, la Szymborska, Poesie della crudeltà di Artaud, fino a Cedi la strada agli alberi di Franco Arminio. Particolarmente importanti nel mio percorso sono stati poi I fiori blu di Raymond Quenau, Estasi e materia di Le Clezio, Sacro e profano di Mircea Eliade, alcuni racconti di Borges,
L’uomo creativo e la trasformazione di Neumann, La poetica dello spazio di Bachelard, Sincronicità di Jung.

Tempio del Codice, 2019, Galleria Alessio Moitre - Luca Olivieri - courtesy of the artist
Tempio del Codice, 2019, Galleria Alessio Moitre – courtesy of the artist

L.F.: E credi che la potenza del linguaggio possa essere un ponte per avvicinare il fruitore generico ed educarlo ad una maggiore sensibilità artistica?

L.O.: Se per linguaggio intendiamo un codice verbale o scritto che faccia da mediatore tra opera/autore e fruitore, allora ovviamente sì, anche se un eccesso di chiacchiere credo possa anche scatenare l’effetto inverso. La parola può aprire ma può anche chiudere. Spiegare tutto vuol dire anche svelarlo senza lasciare nessuna responsabilità allo sguardo, così non lo si educa, lo si impigrisce e indottrina. Inoltre c’è sempre la pretesa assurda di voler comprendere tutto, quando invece basta guardare al mondo o anche a sé stessi e ci si rende conto che la vita è soprattutto mistero. E perché allora l’arte dovrebbe essere didascalica e facile?


Se invece parliamo di linguaggio in quanto opera credo che la questione sia più complicata. Il fruitore medio spesso ha un’idea chiusa e formata di arte, che varia in base alla sua cultura e alla sua sensibilità e che difficilmente è disposto a ritrattare. La parola decontestualizzata dai suoi canali tipici spesso risulta più criptica, almeno per quanto concerne il mio lavoro, ma ha il potere di muovere appunto, destabilizzare. L’immagine impone una visione, si lascia rimirare, subire con piacere o repulsione. La parola propone, stimola, guida forse, ma spesso verso ulteriori domande.
Se si ha già la mente sgombera da preconcetti e ci si pone con umiltà credo che la parola si riveli in quanto frequenza e così possa condurre nell’Altrove. Si da troppo potere al significato e troppo poco al significante, che spesso invece è già il Senso. La contemplazione di un’opera d’arte, che sia essa immagine o linguaggio, dovrebbe essere intesa secondo me in primo luogo come un tentativo di sincronizzazione e sintonizzazione e solo in seguito spostarsi se necessario sul piano formale. La Poesia dovrebbe essere l’unica legge.


L.F.: Ho trovato molto interessanti le opere manifesto War is (2020), in cui hai trattato un messaggio politico attraverso le assonanze. Pensi che questo lavoro possa avere un’evoluzione?


L.O.: Sì, in un certo senso sono embrioni. Completi ma non completamente formati. Quella serie come anche altri manifesti realizzati nello stesso periodo sono il dispiegamento di energie verso l’apertura di possibilità. Dispiegamento controllato in quanto non diretto a informare la materia.
Credo che la naturale evoluzione sarà incanalare quell’energia in una forma concreta. Questo accadrà però solo per gli esemplari che sopravviveranno al Giudizio.

War Is, 2020 - Luca Olivieri - courtesy of the artist
War Is, 2020 – courtesy of the artist

L.F.: Raccontaci l’esperienza espositiva che ha segnato particolarmente la tua carriera artistica.


L.O.: Credo sia stata proprio quella a cui hai assistito, la collettiva Sospesi nella Galleria Moitre di Torino a cura di PROGETTOHECATE. Ho preso parte a molte mostre collettive, ma la maggior parte delle volte la sensazione finale era quella di un assemblaggio di energie, a volte coerente e comunicativo, altre assolutamente asettico e accademico. In entrambi i casi gli eventi erano contenitori che ospitavano opere e pubblico favorendone l’incontro. In questa occasione invece ho capito l’importanza di un approccio site specific, lavorando non solo nello ma anche con lo spazio e
per lo spazio. Non dico che sia l’unico modo di procedere, anzi, ma credo sia necessaria una consapevolezza dello spazio che abitiamo e occupiamo se si vuole creare uno scambio costruttivo con il mondo. Le due installazioni laterali (La nube della non conoscenza e Lettere) sono state finite di assemblare letteralmente all’ultimo momento, credo di aver piazzato l’ultimo chiodo de La nube qualche attimo prima che iniziasse l’inaugurazione. I chiodini che avevo scelto erano molto lunghi e sottili e si spezzavano continuamente. Lettere faceva da specchio alla Nube, tentava di ricalcarne il profilo ma finiva per animarsi di vita propria. D’altronde presentavano le due diverse facce della comunicazione. Il Muro di parole era l’elemento centrale e richiese molta dedizione. Scrissi a matita l’intera superficie con la stessa calligrafia dei miei diari, tralasciando solamente una linea centrale che scandiva il lavoro in tre fasi. Il vuoto verticale era un silenzio presente che divideva passato e futuro. In quel frangente a galleria chiusa effettuai un rituale di passaggio. La parete prese vagamente le sembianze di un libro aperto. Fu un’esperienza importante, anche e
soprattutto perché quel luogo divenne uno spazio di condivisione e quindi di crescita.


L.F.: Attualmente la realtà torinese offre buone opportunità o vorresti spostarti in un’altra città per fare nuove esperienze in qualità di artista?


L.O.: Amo Torino. Dalla prima volta che ci misi piede riluttante sentii che questa città mi chiamava.
Tuttavia l’Italia ha poco a cuore la ricerca, e l’arte senza ricerca diventa una colossale masturbazione borghese. Sto valutando la possibilità di muovere altrove, ma ancora niente di definito. Berlino attira.


L.F.: Se dovessi pensare utopicamente ad una galleria o ad un luogo in cui vorresti esporre le tue opere, quale sarebbe?


L.O.: Documenta a Kassel tanto per non spararla grossa. E la Biennale di Lyon. Ci sono stato l’anno scorso e si respira un gran bel fermento.


L.F.: Stai lavorando ad un nuovo progetto?


L.O.: Più che lavorare per progetti porto avanti una ricerca. Il progetto è trovare luoghi che mi permettano di trasformarli in spazi. Di opere aperte ne ho diverse, la più “formata” si chiama Parole catturate prima di conoscerne il significato ed è un work in progress in cui non faccio altro
che catturare parole lette di cui non so il significato in bustine trasparenti e ordinarle a parete assemblando una sorta di dizionario al contrario, una sorta di dichiarazione d’inconoscenza. A parte questo sto partecipando a una realtà interessante e aperta, si chiama Sezione Aurora ed è un collettivo nato all’interno del condominio-museo di viadellafucina16 in occasione di un workshop con Emilio Fantin. Inoltre con Marco Gagliardi e Marco Isaias Bertoglio ho fondato Ur – un progetto di musica sperimentale in cui per mezzo della voce vado a rispecchiare ciò che faccio normalmente con la scrittura per esplorare nuove frequenze. PROGETTOHECATE poi sta tornando a lavorare su qualcosa di molto interessante finalmente, ma ora è presto per parlarne.


L.F.: Un artista contemporaneo con cui vorresti collaborare?


L.O.: Richard Long. Ho sempre trovato il suo modo di lavorare traendo dalla natura immenso. C’è una potenza ancestrale nelle sue opere.

L.F.: Un assioma di Vincenzo Agnetti afferma che La parola è percorso (1971). Cosa ne pensi a riguardo?


L.O.: Sui muri del dipartimento di pittura dell’Albertina scrissi “Scrivere è una passeggiata?” proprio perché per me la scrittura è un cammino, come lo è la parola in quanto vibrazione. Spesso la Poesia mi possiede e mi scrive, è allora che sento di aver scalato il gradino che avevo di fronte.

Questa Parola Apre - Luca Olivieri - Courtesy of the artist
Questa Parola Apre – Courtesy of the artist
Parole Catturate (dettaglio) - Luca Olivieri - courtesy of the artist
Parole Catturate (dettaglio) – courtesy of the artist