AURORA PAOLILLO X FRANCESCA VITALE
Lettori di Osservatorio Futura, oggi vi presento la mia conversazione con Aurora Paolillo, artista torinese classe 1990 che ho avuto il piacere di incontrare e conoscere durante la creazione di una mostra la scorsa estate.
I suoi lavori si esprimono maggiormente attraverso la scultura e l’installazione, usate da Aurora soprattutto per mostrare quanto possano essere ingannevoli i nostri punti di rife rimento. Ha un approccio istintuale che le permette di esplorare le diverse potenzialità della materia. Oltre ad aver partecipato insieme ad altri artisti a numerose mostre, nel 2016 fa la sua prima personale “Mirror Project #7 – Sensible Objects. The Art of Bonds” curata da Clara Madaro ad Associazione Barriera, Torino.
Francesca Vitale: Ciao Aurora, che bello risentirti dopo aver collaborato insieme a una mostra la scorsa estate. Per l’occasione avevi presentato la serie di “Adattamento”. Ce la racconti?
Aurora Paolillo: Ciao Francesca, il piacere è mio e grazie per avermi dato la possibilità di parlare del mio lavoro. La scorsa estate ho presentato una serie di 18 piccoli dipinti ad olio, ognuno di essi si relaziona con una piccola scultura in ottone.
In questo lavoro, come nella maggior parte dei miei lavori, i significati e le direzioni sono molteplici.
Adattamento nasce dalla necessità di confrontarsi con la pittura come mezzo che per mette un’azione meditativa e contemplativa. Le pennellate sono infatti date a piccoli toc chi diventando così, una sorta di trama rituale.
Le tele si confrontano con delle piccole sculture in ottone che creano un’ambiguità percettiva e segnano il continuo “conflitto” tra bidimensionale e tridimensionale nella mia pratica.
In questo lavoro cerco di mostrare un principio di adeguamento, di prova, di negoziazione tra pittura e scultura, come due forze che si attraggono e respingono nello stesso tempo e dove i confini sono costantemente variabili.
F.V.: Nella tua presentazione parli di “simboli in azione” definendo oggetti che fanno parte della messa in atto di un meccanismo. Come è nata la tua passione per l’arte e per l’atto artistico e come hai poi relazionato il tutto con il concetto di “simboli in azione” di cui parli?
A.P.: Penso che ogni opera, ogni oggetto che realizziamo sia la somma di una serie di altri elementi che incontriamo nella nostra esistenza. Il risultato di questi incontri acquisisce un suo unico significato, diventa un simbolo che agisce sul nostro essere e ci mette in condizione di agire. Credo che l’opera d’arte abbia sempre una dimensione attiva, fatta appunto di azioni e movimenti, interni ed esterni.
Difficile sapere il momento esatto del mio avvicinamento all’arte. Sicuramente l’influenza della mia famiglia è stata importante. I miei genitori sono sempre stati dei grandi appassionati del mondo dell’arte, soprattutto di incisioni, ho subìto quindi quest’influenza. La consapevolezza di quello che volevo fare è però arrivata più tardi. Non sapevo ancora esattamente cosa volesse dire fare arte e ancora oggi non credo ci sia una risposta esatta a questo processo. Il mio è stato un percorso molto variegato: ero indecisa tra medicina e belle arti, ho scelto poi un percorso più vicino al design e infine grafica d’arte, ma ho sempre spaziato molto nella mia pratica, volevo conoscere tutte le possibili dimensioni della materia e delle azioni che si possono fare su di essa per creare una nuova immagine.
F.V.: Quali sono i tuoi maggiori riferimenti?
A.P.: Mi piace trarre ispirazione da diverse fonti. Mi attrae tutto ciò che riguarda la primissima cultura materiale, i primi utensili creati dall’uomo e dal rapporto che creavano con essi, dove esisteva una forte connessione tra l’idea e la materia. Sono affascinata da questo atto ancestrale che risuona molto anche nella mia pratica. Un libro che mi ha ispirata per molti anni è stato il Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, colui che coglieva nel infinitesimale, nel superfluo una bellezza assoluta. Un altro libro che per me è un riferimento in questo momento è La poetica della rêverie di Gaston Bachelard, in questo testo il filosofo mette l’accento sull’importanza dell’immaginazione come forza creatrice dell’opera d’arte e soprattutto come strumento unico per una libertà totale.
F.V.: Quali sono state le tue più grandi soddisfazioni (personali) e cosa invece dell’intricato mondo dell’arte ti ha deluso di più?
A.P.: Per me è una grandissima soddisfazione poter fare arte, in questo mi sento una privilegiata, anche se devo comunque dividermi con un altro lavoro: non è quindi sempre semplice conciliare questi due mondi. Sono due mondi che appartengono a due sfere che a volte entrano in collisione tra realtà e immaginazione. Non c’è un evento in particolare, ma tante piccole cose che mi hanno dato grandi soddisfazioni. Aver concepito dei lavori che hanno trasmesso qualcosa ad altre persone, progettare dei lavori insieme ad altri amici artisti e con loro confrontare le idee e poi renderle concrete.
Invece, ciò che più mi rammarica è vedere poca cura nei confronti dell’operato dell’artista da parte degli stessi “operatori dell’arte”. Dare per scontato che si possa lavorare gratis solo perché vieni esposto in qualche spazio o in qualche mostra. Credo che in questo ci sia bisogno di emancipazione o di ribellione da parte di noi artisti.
F.V.: Nella tua produzione artistica ti occupi spesso di installazioni e sculture. Guardando i tuoi lavori, dagli ultimi come Catarsi e I’m here to be yours a installazioni di qualche anno fa come Now you can touch me e Out of the comfort zone, Ricollocarsi che hai realizzato tra il 2014 e il 2016 mi ha particolarmente colpito, partendo dal tema di base: costruzione e decostruzione. Mi vuoi parlare di questo progetto?
A.P.: Ricollocarsi è un lavoro che ho prodotto nell’arco di due anni, appunto tra il 2014 e il 2016, ho creato e accumulato moltissimi pezzi, sono principalmente calchi di gesso, cera d’api, paraffina, pigmenti e altri materiali. Questo lavoro mi è particolarmente caro perché mi ha permesso di capire l’attrazione che avevo nei confronti della materia e della tridimensionalità. Anche in questo caso il lavoro attrae più questioni. Mi interessava togliere la funzione agli oggetti e renderli in qualche modo non relazionabili realmente con l’essere umano. Togliendo ciò che viene chiamata l’affordance (la qualità fisica che un oggetto possiede e che suggerisce all’uomo come manipolarli) volevo renderli totalmente indipendenti da noi. Nel mio lavoro ho sempre avuto paura della fissità e quindi volevo realizzare qualcosa che non fosse fisso, ma mobile e mutabile, che si potesse costruire e decostruire e che avesse quindi infinite possibilità.
F.V.: Esiste un filo conduttore che accomuna tutti i tuoi lavori?
A.P.: Stavo pensando a questo di recente. Ragionando sulla diversità formale dei miei lavori mi sono però resa conto che ogni lavoro consecutivo a un altro porta con sé una parte di quello precedente. Ognuno dei miei lavori mi spinge automaticamente verso un altro, in una continua danza tra i concetti e la materia. Inoltre credo che si legga abbastanza chiaramente questa continua “lotta” tra bidimensionale e tridimensionale che attuo nella mia pratica e di conseguenza nei miei lavori.
F.V.: C’è un insieme di opere o un’opera singola a cui sei particolarmente affezionata? Magari qualcosa che ti rimanda a un momento o periodo particolare.
A.P.: Così di getto, mi viene da dirti che sono molto affezionata al testo che ho realizzato I’m here to be yours. Mi ricordo ancora di essermi alzata nella notte e di aver scritto d’impulso questo testo, tra l’altro direttamente in inglese. È stato emozionante perché ero così certa di quello che volevo dire e scrivere.
F.V.: Hai progetti per il futuro? (Altre opere/mostre, ecc.) Come ti vedi tra una decina di anni?
A.P.: Purtroppo ho dovuto annullare una residenza in Cile che avevo in programma lo scorso settembre e al momento non so se effettivamente sarà possibile riprogrammarla. In questo momento sto lavorando a nuove opere che riguardano la tematica dell’utopia, del l’immaginazione e della rêverie come spinte per la libertà, sia di pensiero sia di azione. Nel frattempo sto portando avanti la mia “slow production” di design metaforico, questo progetto prende il nome di edera studio, produco “gioielli” sia per il corpo sia per gli spazi.
Per quanto riguarda progetti futuri, insieme a Cecilia Ceccherini, sto portando avanti la programmazione di Fondo, uno piccolo spazio sotterraneo all’interno del nostro studio. Il prossimo evento – covid permettendo – vedrà i nostri lavori in relazione al lavoro del filosofo Alessandro Longo, con il quale abbiamo avuto piacevoli scambi di idee. Quest’estate speriamo di poter continuare a lavorare alla programmazione e di poter collaborare con altri artisti come abbiamo fatto lo scorso autunno, durante l’ultimo evento prima della chiusura.
Tra dieci anni spero di avere sempre la consapevolezza che non c’è una risposta univoca quando si parla di arte, l’unica certezza che sento di esprimere è che per me fare arte è l’unico modo per essere davvero libera e vorrei tutelare questa libertà senza dare etichette.