ALESSIO MOITRE
Dopo un decennio di professione galleristica, per la prima volta, latito nell’assecondare il calendario delle esposizioni. Ho strascinato le mostre da un mese all’altro. Schivando le chiusure, impratichendomi nella psicologia del virus. Ho giocato con l’abaco per indorarmi la matematica. Ho velicato motivazioni. Per merito d’interesse principalmente. Ho rilanciato il motore, anche a manovella se vi era una logica. Nell’attesa, inizialmente inconscia, della valutazione delle ammaccature. Perché non è solo ansia. Quella te la puoi coltivare in autoproduzione. Piuttosto dubito che nulla sia più adeguato. Che se prima valeva il sudore di provarci, ora, in anticipo, sai già che non sarebbe abbastanza. Le categorizzazioni iniziano sovente con la frase: “ci sono due tipi di…”. Io, borghesuccio inurbato, non mi estranio dall’adagio. Ci sono due tipi di galleristi: chi progetta a corta o a lunga attesa. I primi raccolgono ad anni. Sono per censo meno selettivi, ma rischiano la porcheria. Hanno i gradi di chi però ha formato quartieri di creativi. Passano per grossolani. Mica vero, credete a me. Ma almeno si evitano le illusioni. Poche se appartieni all’altra fazione ma squassanti. Se il tuo calibro sono i decenni, allora vai a passo disteso. Meno artisti, più setacci a grana fina. Hai meno cartucce e di balistica te ne devi intendere. Altrimenti il rischio, non è solo di sbagliare i giudizi ma di menomarti il morale. Appartenendo a quest’ultima casistica, il periodo è di linda trucidità. Siamo sbarcati in aprile dopo più di un anno di obrobri artistici. Deformità indotte dalla presa diretta. Mascherine cangiate in opere d’arte, alcune ottenute in richiesta di compenso da parte organizzativa. In tali casi non ho potuto esimermi dall’augurare alla controparte i peggiori mali che genetica possa ottenere. Oggetti sanitari esposti a monito umano. Combinati a totem, quadro (un vero quadricidio), giustapposti per indurre incombenza, rotti, ricombinati, rivisitati con manufatti datati. Un porcume che soverchia ogni proposito d’interpretazione, giuntomi sulle sponde come roba stracquata che il mare ha rilasciato. Si è rinnegato il ruolo di spettatore. Così han fatto scrittori, soprattutto nelle vesti di giornalisti simili a cavalli bombati che trottano inesausti per la pista, musicisti inbalconati, autori entranti con saggi a chiara valenza lesionistica. Un abnorme risposta immunitaria della comunicazione, dopata a livelli mai misurati in precedenza e che ha il vigore per celebrare in corso di ultimazione. Inauguriamo memoriali alle vittime quando nelle quinte lucidano le bare. Il contemporaneo ha il controsenso come cugino ma anche, per la prima volta, un evento unificante per l’intero globo. Nessun altra vicenda ha coinvolto gli uomini con la stessa intensità. Abbiamo il nostro evento scatenante. Settato in un torinese pomeriggio, mi lambicco per escludere, senza alcun contrappunto, che, oltre alla tecnica, ci e mi toccheranno annate ad argomento preselezionato. Avendo borbottato per tempo di voler un po’ d’arte sociale, ora non mi resta che incoronarmi come demente e ingrassare le ruote della celebre bicicletta. Non avverrà, come regola insegna, in principio. Strologhiamo un poco: dopo l’euforia e il disimpegno, giunse l’analisi dettata da uno squadrone di artistucoli e, lo speriamo in supplice penitenza, anche da una manciata di artisti, meditabondi da svariate stagioni. Si conteranno massimo in numero di cinque (se si andasse oltre avremmo già ottenuto un risultato significativo) ed ora, mentre spolvero la palla di vetro, stanno probabilmente architettando il concetto. Proveniamo da decenni di esposizioni su oggetti abbandonati in mezzo alle stanze bianche. Presi e posizionati sul pavimento. Tumefatti dal pudore sociale che li aveva innalzati oppure nerfati, depotenziati per gli astemi da gergo nerd, a vantaggio di logiche curatoriali contorte. Un nuovo carico, su carriaggi rinforzati, sta per giungere. Corposo per giunta. Una manciata di giorni addietro ho ricevuto un documento (rifinito elegantemente) in cui si proponeva un esposizione con un numero significativo di fiale di vaccino anti Covid. I contenitori, vuoti ma riempibili in seguito per simularne l’ambito contenuto, sarebbero stati posizionati, nelle intenzioni del suo creatore, sopra ad una barella. Non proseguo. Soprattutto, non un caso isolato. Ogni nazione svilupperà il profilo del suo dolore. Una sottospecie di puerperio mortifero a cui l’arte parteciperà con reliquie. Se diventeranno dominanti (fattibile visto lo starter) ne avremmo in dote un mercatino di ciapapuer, da cui svetteranno poche eccellenze in un’estetica medica. Il continuo e inopportuno rimando alle imprese belliche come paragone delle miserie attuali, ha un suo significato se ci sporgiamo verso l’immediato dopoguerra. La riconsiderazione dell’uomo era stata nell’arte un motivo di ricollocamento dell’essere umano nel quadro frantumato del novecento. C’era un corpo vilipeso da ricongiungere con la dignità. In questo parallelismo può innestarsi un fondamento di autenticità del ragionamento. Spontaneo, probabilmente più delle proposte in gallerie, fondazioni e musei, il tracciato segnato dalla ricerca all’esterno. Dovuta a migliori condizioni germofobiche ma soprattutto insediatasi prima dell’avvento del virus. La spaccatura ecologica che ha sanzionato il pianeta come spacciato nei prossimi decenni, aveva attecchito in un circolo ristretto intessuto all’architettura, al design, alla sound art, alla performance e alle richieste ambientaliste. Possiede ora un vettore intrigante nell’origine del male che ha schiantato il mondo contando sull’estinzione dell’individualismo artistico anni novanta, tra paillettes e laccature che, me ne assumo la responsabilità, non ci mancheranno soprattutto nella chiave del culto del guru che si è avviticchiata alla nascente informatica di massa, composta da santoni digitali portatori di indefesse nuove verità. Un completamento della sostituzione terminologica principiata negli anni settanta: le parole umanistiche decampavano a vantaggio di quelle economiche. Il resto è lo spopolamento di neuroni sul pianoro del mio intelletto che mi ha portato a ipotizzare difformi scenari. Per evitare di desertificare le sale nivee della galleria, dovrò contare su uno scenario volitivo. Perché, almeno per me, il piacevole nell’arte non è un aggettivo ma un evenienza, dunque ho bisogno di un geologico procedimento dell’idea per convincermi del senso di un lavoro. E ad oggi, ripeto pedantemente, ho solo oggetti scossi ed un poco atterriti. Ho mesi davanti. Per ora annoto frenesia e posso oziosamente applicarmi all’attesa. Ma se nessuno si presenterà reagirò da vero gallerista: mi compatirò in streaming.