ALESSIO MOITRE
Condividiamo un’epoca emotivamente selettiva. Chi ne ha dono se la duella in imprevedibili regolamenti di sentimenti. Fuoriuscendone a vari stadi. Per i restanti, la maggioranza, è un ingombro limitante. Vien da pensare che ad impaniarsi non debbano essere gli artisti. Gestori scaltri dei moti umani. Adulatori di pensieri che come liquidi in provette vengano centellinati nella mescita dell’opera. Principio vero solo nell’atto della frequentazione di tali impulsi ma assai fuorviante per un analisi soddisfacente. Ai galleristi è postulato noto restituibile in: l’istinto, quel gran maneggione! Visionabile nell’artista (se mai ci sarà!) ai primi tentativi. Al primo ticchio, supportato da enfasi mistica, la creazione avviene. È al cospetto del mercante il ragazzo ha impreziosito il gioco con citazioni (essenziali, mai dimenticarle) e cospicua carica critica, affidata ad un nome o al massimo ad un cognome. L’insieme in un pacchetto titolato: portfolio. Si discorre dell’Accademia (magra, direi ormai scarnificata), dei rimandi intellettuali che tralatizi percorrono l’umanesimo, battute di piuma. Al punto però sono chiamato a capire. Come avviene la creazione? Mi e gli/le domando. Nascondendo la mano dell’azzardo perché per un professionista, la continuità è il segreto del successo. Aggiungi ferro sulla pesa, in attesa che si faccia anche sul piatto opposto. Ma invece che materia si appoggiano giorni. Quali direte voi? Di che parli? Allora per irritare giro la ruota ancora più larga. Quanti giorni all’anno l’artista fa l’artista? Si potrebbe mai quantificare? Per terminare di riproporre domande, rispondo che no, nessun giorno. E niente di più o di meno. Perché chi rusca con le idee non ha anni da soppesare. Ogni attimo è prodotto, dunque lavorabile. Oppure mondatura per operare. Ma per chi acchiappa l’attimo con il retino può perdonarsi ammanchi di tempo. L’istinto è il suo scudiero. Ed è con questo novello “spingitore di cavalieri” che buona parte dell’ultima creatività travaglia. Viene squassato dall’emotività, a cui non pone nessun freno, dando proseguo allo stereotipo dell’artista vanerello ma umanamente ricco di trasporto. Quando viene lo spirito lo si accontenta e l’arte si esprime. Nessun metodo. Manco per la capa! Il metodo, come prassi, vorrebbe tempi edulcorati distanti dall’atto fuggevole. Allora, in fronte a me, nella galleria aperta con tempi ormai amatoriali, si setta sempre più spesso il campione dell’artista emotivante: un po’ emotivo, vagamente motivato ma in una raminga passeggiata a retinare progressi che immagino, come avrete dedotto, simili a pennuti improbabili. All’universo dalla spietata carica empatica, bruciabile in giorni, contrappone il suo disarmo. Nudo il suo rapporto con la creatività che reputa ancillarlo nelle più alte intenzioni. Nella sua filosofia c’è dell’idealistico. L’istinto puro, fonte di benessere è un concentrato ricostituente d’assumere alla bisogna, o meglio, al momento vista la sua imprevedibile venuta. Non gli difetta la visibilità. Quasi sempre instagrammato, social (e socialite), ben piazzato nella griglia della mondanità. “Banalità” sento giungere dallo spiraglio, “Mica tant” ribatterei. Il più delle volte è un fante di una truppa di accoliti e per via della sofia dell’istinto è discepolo della ripetizione dell’emozione in tempi e modalità definite. Gestibili, questi sì. Ma per me, tecnico, dipendente unico della mia azienda, il bozzetto reso sin qui, è di profondo disinteresse. Se dovessi sfruttare solo i secondi, sarei senza dubbio un estimatore. Ma essendo l’arte una carraia di lungo corso, debbo scartare il candidato che si professa istintomane. Ah certo, il successo breve. Quanti tizzoni ardenti ha lasciato. Promesse uccise dalle esposizioni ripetitive, comandate, imposte, trascurabili, necessarie. Non sono un aggettivante ma il gioco prende. Il risultato infine è un altro frinfrino bruciato. Professava talento, si sosteneva dignitosamente. Ma, da bocca di gallerista, non aveva alcun metodo se non lo slancio. All’artista primino si nega sempre l’insegnamento del controllo della creatività, rendendolo un navigante inesperto. “Ma è già grazia che l’istruzione ci sia”, mi incalzo, “e poi l’idea mica s’impara”. All’abbrivio ardenti, a distanza di anni i più si adagiano sulle mostre a richiesta, su collettivi abusanti della pazienza pubblica, in studi periferici, in progetti perfuntori, berciando, ovvio, con passione crescente. Richiamando a me la corda, un paio di nodi andrebbero stretti a piena mano. La creazione è un processo, come tale è una catena di montaggio. Immagine ammorbante ma salvifica. Senza scomodar l’Oriente e la sua ricerca del percorso iniziatico, banausico è il lavoratore formato dalla sua conoscenza. I materiali sono il dettaglio e nello stesso tempo il segreto del talento. All’attimo non è concesso sostare e a nessun gallerista interessa l’avventato. Di gran lunga meglio il pignolo, il ripetitivo ragioniere ma puntiglioso. Possiamo fare a meno del moto dell’animo, qui si gioca una carriera ed essere celebri a vent’anni per narrarlo da nostalgici a solo trenta, è davvero sintomo di dabbenaggine. Lo strumento, che sia corpo o materia, è l’unico entusiasmo che deve pervadere il creativo. Le idee, le supposizioni sono un capitolo affascinante ma futuro perché nessuno nell’istinto rassetta le tematiche, c’è solo il ferino aggredire. Secondo, in una supposta lista: non equivocare il tempo come disponibile, ma saperlo regimentare. Un artista ha il controllo dei suoi giorni. Li sa soppesare, convertendo il proprio corpo in terreno di studio. Quanti creativi inadempienti, incapaci di rispettare le consegne, sostenitori di scusanti fannulloniche o di presunte necessità artistiche. A nessun gallerista piace l’eterno adolescente. Il professionista accerchia le proprie debolezze, le prende d’assedio e giunto al cuore le interroga. E da questa consistenza che si fonda un rapporto. Il mercante cerca un pari grado non in denari, ma in rischio e consapevolezza. Ed infine, la bellezza dell’errore condiviso. La crescita dell’opera d’arte è un inciampo continuo, benaugurante se posto sui binari del confronto. Discorso futile per gli istintomani, rinchiusi in disgraziati training studiosi. Angariati da pensieri foschi. L’isolamento, disciplina ormai nobilitata dalle circostanze, gli è vitale. All’artista deve esser noto che il gallerista è intento anche nel comprendere ciò che l’opera sarà. La può solo immaginare e sperare. Dovrà affidarsi. Dunque almeno lasciargli il raffronto, le supposizioni, le prove prima del fatto. Non è un atto dovuto ma trattiamo pur sempre di un caudatario, ingolosito dalle attese. Nel contemporaneo dei grandi lanci empatici, richiamare al potere lento delle lancette, nobilitato dal lavoro e dalla comunione appare (questo me lo imputo sì) un atto monastico. Ed è insano (guarda un po’!) che l’artista invece che un vicario dell’arte, sia diventato un galoppino isterico, sfruttato a man bassa. Dalla società? Vostro onore lo negherò sempre! C’è la volontà dell’uomo. Ah, benlosapevo. Mi mancava il punto terminale. Le decisioni. All’uomo istantaneo servon poco ma per il creativo è pietanza prelibata. Esser artisti significa far le vittime? L’ho imparato negli ultimi dieci anni, per qualche villano: un pingue Sì! Ed io illuso che pensavo fossero uomini con le palle e le donne anche quattro. Con tempra e prese di posizione. Perché ve lo dico in chiusura, l’esser umano indeciso mette ansia. Anche ai galleristi.