DANIELE COSTA X MATTEO GARI
Frammenti di vissuto personale si incagliano nella materia filmica dei video di Daniele Costa (Castelfranco Veneto, 1992), la cui ricerca pone l’accento sul corpo umano. In particolare, l’interesse per il suo funzionamento dal punto di vista medico-scientifico va di pari passo con la necessità di entrare in relazione con le storie individuali delle persone che incrociano il suo cammino. Spunti visivi aprono le porte a visioni sulle quali si collocano narrazioni possibili, come in Drowning (2015) in cui l’ultimo versetto della poesia di Eugenio Montale Piove ispira un’analisi della morte per annegamento, o ancora Spazio Morto (2016) che cerca di far emergere la dicotomia tra spazio vivo e spazio morto a partire dalla quotidianità di un giovane immigrato sul Lido di Venezia.
Matteo Gari: Quando e come ti sei avvicinato al mondo dell’arte?
Daniele Costa: Non mi sono avvicinato all’arte, se così si può dire. Nel senso che il mio percorso è iniziato attraverso il cinema, a cui mi sono avvicinato studiando i registi che mi affascinavano.
Alle scuole superiori ho frequentato un Istituto Tecnico fatiscente a livello di propositività immaginativa, però sono sempre stato affascinato dalle immagini in movimento e tutto ciò che racchiudono le loro modalità. Mi sono iscritto poi al Dams, dove mi sono trovato coinvolto in un corso di arte contemporanea seguito da Guido Bartorelli, e da lì è nato un amore spasmodico per l’arte contemporanea. In particolare all’inizio ero molto affascinato dal filone dell’Arte Povera, poi continuando gli studi la mia fascinazione per il cinema si è infiltrata nel mondo artistico facendo nascere in me l’idea di usare le immagini in movimento come mezzo espressivo. Ho fatto molti anni di ricerca approcciandomi al video esclusivamente come mezzo, interessandomi alle sue specificità: la possibilità di catturare tempo e immagazzinare momenti. Da quel momento, il mio filone di ricerca si è sempre interessato a mettere insieme le immagini in movimento e tutto quello che il movimento della camera immagazzinava dentro di sé.
Ho finito il percorso di studi allo IUAV di Venezia con una magistrale in Arti Visive, ed è qui che direi di aver iniziato il mio vero e proprio percorso. Avere come professoressa Angela Vettese – che per me ha creato un prima e un dopo -, con la sua capacità di concepire determinati discorsi, è stato fondamentale per indirizzare la mia ricerca e comprendere le responsabilità dell’artista e l’importanza della ricerca.
MG: Cosa ti ha portato a scegliere il media del video tra tutti?
DC: L’utilizzo del video è stato un pensiero originato quando mi sono avvicinato alla dimensione artistica. Non ho mai riflettuto sulla particolare urgenza di capire quale fosse il mio medium specifico. Non penso a me stesso come “un video artista” perché ci sono arrivato in modo consequenziale.
Dal punto di vista della ricerca tutto ciò che immagazzinavo riguardava, in particolare, il tempo e il corpo. Il corpo che per me è intenso come tempo, archivio, sovrascrittura, gestualità, paradosso e sincronia. Il modo in cui mi avvicino a questo tempo è sempre stato il video, ma in maniera assolutamente mai vincolante. Quando inizio un nuovo lavoro c’è sempre il momento di ideazione in cui, magari, penso di realizzare un’installazione o altro, ma solitamente il tutto prende una piega narrativa – dove la narrazione fa parte dell’Io – e questo è il fattore principale che mi porta a usare il video.
MG: Come descriveresti la tua produzione artistica?
DC: La mia fascinazione per le immagini in movimento è uno strumento di osservazione abbastanza fedele. Tendo a distaccarmi dalla parola videomaker – chi produce video – di cui si abusa molto ultimamente. Quando sono in giro e vedo cose che mi affascinano non sfodero la camera o il telefono per riprenderle e portarmele a casa. Nelle mio opere c’è sempre una ricerca iniziale, legata a una trazione molto forte tra il corpo, il contesto e la mediazione temporale, che in maniera distaccata provoca l’esigenza di avvicinarmi a determinate individualità per creare con loro un percorso.
Uno dei miei primi lavori, Spazio Morto (2016), è nato in maniera abbastanza casuale mentre stavo lavorando a un altro progetto su una tematica simile. Eravamo io, la mia videocamera e il mare e non avevo l’idea di inserire tutto ciò che c’è nell’opera. L’esigenza è nata per via dell’attrazione per il luogo in cui stavo riprendendo arrivando a investire il lato relazione della mia pratica e un discorso molto forte legato alla performatività del fare video.
Durante le riprese vivo in maniera viscerale la performatività del fare video. Vivo la pratica delle immagini in movimento come una performatività tra il mio corpo, il corpo dell’altro e il tempo. Non sento l’esigenza di creare una narrazione precisa dettata da una sceneggiatura, partire da una trama o un copione prestabilito, perché il fulcro è il momento in cui il mio corpo e quello dell’altro toccano un tempo comune formando una coscienza comune. Magari un giorno farò un bellissimo film, ma per ora mi piace lasciarmi coinvolgere dall’avvenire delle cose.
MG: Hai detto che il tuo interesse per le immagini in movimento è nato fin da giovanissimo con la tua passione per il cinema. Oggi cosa diresti che influenza o ispira la tua ricerca?
DC: Ricordo quando ho visto per la prima volta Il Capo (2010) di Yuri Ancarani. Mi ha dato uno scossone dal punto di vista estetico, la camera sapeva cosa fare perché il suo occhio era estremamente osservativo, anche se quando ha iniziato a fare lungometraggi ha perso quel carattere osservativo e di fascinazione per le immagini in movimento che mi coinvolgeva tantissimo. In questo momento ci sono tantissime spinte e ispirazioni, come Anne Imhof che è una delle artiste che traccia direzione per le nuove generazioni. Guardando all’Italia mi piace rimane vicino a ciò che accade vicino a me. Le opere di Giulia Crispiani sono estremamente forti e contemporanee, ma anche Giulio Squillacciotti, i Masbedo e gli Invernomuto. Sono tutti artisti con determinate modalità di racconto che mi tengo molto stretto nel mio immaginario visivo e concettuale.
MG: Diresti che ci sono delle costanti nella tua ricerca artistica?
DC: Ci sono delle costanti che diventano variabili. Come il mio interesse per il corpo, mio e dell’altro, in una storia collettiva e un tempo comune. C’è sempre uno spazio, la provincia o una stanza, in cui ci si posiziona e che emerge anche a livello visivo. C’è la performatività dell’avvicinarsi e del respingersi tra me, la videocamera e l’altro. In ultimo c’è una base di ricerca che parte sempre da un’individualità che poi si dirige verso idee collettive.
MG: Utilizzi esclusivamente immagini girate da te stesso o ne prendi anche in prestito? Qual è il motivo di questa scelta?
DC: Ho sempre avuto l’esigenza di usare immagini girate da me. Avrei molta difficoltà a fare il contrario, non lo nego, perché l’idea di costruire un’immagine e utilizzare determinate modalità osservative mi affascina e contraddistingue ciò che faccio quando posiziono la camera. Non mi fido degli artisti che hanno l’opera prima di fare ricerca. Credo che questa faccia nascere una serie di urgenze che portano alla luce un qualcosa da dire, che può a sua volta concretizzarsi nell’arte. Nella mia pratica metto in atto una relazione – mai possessiva – tra me e il soggetto in un processo di strutturazione che si fa insieme, tra due corpi che vanno uno verso l’altro, e porta all’esigenza di costruire l’immagine su questo. Questo piano relazionale si accompagna a una pratica che nell’ultimo anno ho sentito l’esigenza di esternare, come nel caso della realizzazione di What Do You Sea? (2021). Arrivando da un anno costretto a fare ricerca da camera e ho sentito sempre più forte la spinta a rendere tangibile una collettivizzazione dell’arte. Per questo motivo ho posto un invito al collettivo curatoriale Campo Base, motivato dall’interesse per la molteplicità di persone e percorsi che lo compongono, a lavorare insieme a un progetto in cui immagini d’archivio si appoggiano al contemporaneo attraverso mie riprese in Piscina Cozzi dandone nuovo senso.
MG: Hai parlato del progetto Megamore come “sguardo queer”. Cosa significa queerness per te?
DC: Questo marzo l’artista Beatrice Favaretto, che segue la direzione artistica del brand di moda Marco Rambaldi, ha invitato me e altri artisti nel pensare dei manifesti futuri da lanciare sui social. Ho colto l’occasione per fare un lavoro in modalità solitaria, ma rilanciato online in ottica di condivisione e alleanza, parola chiave per il duo performativo di Venezia Miami Safari che ho invitato a partecipare. Le nostre ricerche coincidevano in modo particolare e da qui è nato Megamore I, reinterpretazione in chiave queer di un versetto della Gerusalemme liberata (1581) che apre un discorso sulla gestualità e i corpi. Lavorare con loro è stato assolutamente formativo e ci ha portato naturalmente a generare Megamore II da So Contemporary a Padova e Megamore III per Una Boccata d’Arte a Battaglia Terme.
Credo che la queerness sia un’urgenza di cui si deve parlare sempre in maniera continua e una modalità che ognuno di noi dovrebbe avere. Rappresenta una libertà di espressione e di condivisione con il corpo che non deve scindere a una volontà rigida. Il queer è il rimanere curvo, fluido, è la volontà di non farsi trascinare nella rigidità della forma, ma lasciarsi coinvolgere dalla possibilità di non sostare in un punto fermo e naufragare. Queer è il discorso sui corpi, la storia individuale e l’identità, l’avvicinarsi, il performare insieme, il creare uno spazio di condivisione dentro un contesto individuato senza cadere in uno sguardo univoco e binario.
Tutto questo dà stimolo alla mia pratica ed è sfociato nel lavoro che sto portando a termine in questo momento, Trapezia, nato dall’incontro con Aurelio alla presentazione del mio video X (2020) al Lago Film Festival. X aveva aperto nuove porte nella mia ricerca grazie al coinvolgimento orale, elemento fino a quel momento assente dai miei lavori. Il rapporto nato in maniera spontanea con Aurelio, la drag queen milanese Trapezia Stroppia, si è legato fortemente al periodo che stavamo vivendo in cui i club erano – e sono – chiusi e di conseguenza la performatività di questi luoghi era in blocco. La Trape aveva iniziato a registrare dei video assolutamente assurdi sui social, che mi portavano verso una nuova visione del quotidiano attraverso comedy e ironia, ma da cui traspariva una fragilità condivisa perché eravamo tutti in una situazione sommersa. Così è nato un progetto a partire dall’idea di stanza come luogo contemporaneamente intimo e pubblico. La stanza della Trape contiene sia Aurelio sia il suo personaggio, facendoli coabitare ed esibire entrambi. Le teorie di Judith Butler e i discorsi legati alla pratica drag ci insegnano che ognuno di noi interpreta un copione, non c’è un originale, ognuno si rifà a costrutti sociali, ognuno di noi è la sovrascrittura di un processo. Non mi interessava la pratica drag in sé, ma piuttosto l’idea queer di essere dentro un contenitore in cui si naufraga insieme. Il processo che abbiamo avviato è stato coinvolgente. Vedere la Trape esibirsi di fronte al proprio cellulare, interpretando i propri pezzi, ma nello stesso spazio e tempo anche Aurelio che si confida, parla del suo intimo e quotidiano. Abbiamo girato per dieci giorni all’interno di camera sua in cui si è creato un legame così forte da essere propriamente parte dell’opera.
La fase di ripresa è finita e sono arrivato a un montato che è in fase di finalizzazione per quanto riguarda la parte sonora e di post produzione. Verrà presentato alla Fondazione Il Lazzaretto di Milano il 12 novembre, in quanto ha vinto il premio Lydia per l’arte emergente.
MG: L’opera dei sogni che vorresti realizzare?
DC: Trovo molto difficile parlare di opera dei sogni perché credo che nel mio percorso artistico il sogno non esista, ma piuttosto ci siano una processualità, una modificazione, una contraddizione e una capacità confrontarsi con le urgenze del contemporaneo. Ho però un’opera nel cassetto, lasciata indietro perché difficile da portare avanti dal punto di vista della burocrazia. Riguarda il corpo in maniera molto forte. Ho lavorato con un hospice, una casa di accompagnamento verso la morte, lavorando sulla trasmissione del calore tra le persone in condizione di fine vita e gli operatori sanitari che si occupano di stare loro accanto. Il progetto si basa sulla modalità di ripresa con camere termiche che permette di catturare il trasferimento di calore, che va a esaurirsi o permane, tra i corpi.