ALESSIO MOITRE
28 febbraio 2022:
All’attenzione della direzione della Biennale di Venezia
Nonostante l’imprevedibile evolversi delle vicende, la conseguente impotenza del mondo della cultura di fronte al propagarsi dell’insensatezza umana, c’è, ben presente in pensieri, la volontà del mondo intellettuale italiano di fornire una risposta e forgiarsi una chiave d’intervento nel tempo presente. Le strade approntate sono svariate ed alcune sono già state fabbricate alfine di ottenerne un rapido effetto. La guerra d’invasione russa su territorio ucraino, possiede, come ci è ormai noto, pretesti di natura storica con riferimenti sociali, civili, linguistici e interpretativi dei più svariati. Senza scendere in dettagli, è evidente che una certa cultura alimentata dal Cremlino si sia mossa per soggiogarne un’altra, e lo abbia fatto travisando eventi ed aggiustando fatti, consentendo scritture e parole che il Presidente Putin ha lavorato cinicamente perché convincessero l’uditorio e creassero giustificazioni artificiose. Possono essere mie interpretazioni, che mi paiono per altro suffragate dalle recenti lettere del mondo pensante russo apparse su quotidiani ufficiali, ma soprattutto la rinuncia del curatore e degli artisti al Padiglione della Russia, che avrebbe dovuto impreziosite la Biennale di Venezia di prossima apertura. Seppur tale gesto sia venuto dopo un privato contenzioso morale dei singoli e lo ritenga un peccato vista la caratura dei soggetti, altrettanto fortemente temo che il Padiglione dell’Ucraina non sia portato a termine, e questo sarebbe un ulteriore obiettivo colpito dall’esercito invasore.
Abbiamo ancora le orecchie assordate dalla svalutazione umana operata dalle parole
giunte dalla Russia nei confronti della nazione Ucraina, ridotta al rango di errore e di nessuna utilità. Io, come moltissimi altri, possiamo solo avvertire la rabbia che
scaturirebbe da una dichiarazione simile se fosse stata inflitta alla nostra nazione.
Possiamo infliggercelo senza rischiare dell’altro, quasi come esperimento. Diversa è la condizione dell’artista Pavlo Makov e dei curatori Lizaveta German, Maira Lanko e Borys Filonenko e del loro team, alcuni ormai impegnati a far fronte ad uno scenario di guerra. I loro compiti vanno in direzioni di sopravvivenza e di difesa della loro identità vitali per l’esistenza di un intero popolo. Di certo non gli si può richiedere di prendersi cura di un progetto artistico seppur di scenario mondiale. La sospensione dei lavori nel padiglione ucraino non dev’essere il preludio alla cessazione del progetto. Non sappiamo che cosa organizzerà il futuro per il destino di russi ed ucraini, ma siamo certi che è di importanza determinante la vitalità dell’iniziativa, che essa prosperi anche in questa nuova Biennale, ancora più perché a Venezia, città occidentale da sempre slanciata verso il mondo. Non conosco l’evoluzione dei retroscena, nemmeno se si stia già intervenendo in qualsivoglia direzione per evitare lo scenario evocato, se la risposta fosse negativa invece, sarebbe campale domandarsi come intervenire. Un progetto diverso, coordinato con i titolari dello spazio, forse impossibilitati a partecipare? Una collaborazione con altre nazioni al fine di generare un dialogo? Un aiuto transnazionale in nome di un’ emergenza imprevedibile? Ammetto che un sostegno culturale, al pari di quello economico varato dall’Unione Europea per il conflitto, sarebbe un tassello d’unità e non solo di vicinanza alla nazione ucraina. Ma senza evocare scenari fumosi, mi domando come si possa agire e se già ci si stia incamminando verso una possibile soluzione. A mio parere, sarebbe insostenibile doversi arrendere alle porte chiuse di un padiglione che per i sostenitori della democrazia sarebbe una lettura d’impotenza e un ulteriore ferita per il popolo ucraino. Come stanno le cose? Quali sono le condizioni attuali? Nel caso, quali piani alternativi si stiano mettendo in campo? Mi viene da chiedere tutto ciò alla direttrice artistica Cecilia Alemani, alla direzione della Biennale di Venezia, a chiunque di competenza o di buona volontà, sperando che non si voglia lasciare al fato le sorti prossime.
Giovedì 3 marzo:
La Biennale di Venezia, per mezzo di un comunicato stampa, informa in data 2 marzo “che sta collaborando e collaborerà in ogni modo con la Partecipazione nazionale dell’Ucraina alla 59. Esposizione Internazionale d’Arte (23 aprile – 27 novembre 2022) per favorire la presenza dell’artista e del suo team con la sua opera, alla cui realizzazione è fortemente impegnato nonostante la tragica situazione in Ucraina”. L’informativa prosegue puntualizzando prese di posizione e principi della manifestazione, in contrasto con l’interventismo russo in terra Ucraina. Inutile puntualizzare che quanto fin qui letto del mio precedente contributo sia ormai perfuntorio, forse arrogandosi un pizzico di scetticismo, sarebbe utile sapere (ma non è certo una richiesta comune) i piani alternativi all’eventuale mancanza dell’opera ufficiale dell’artista Pavlo Makov. Operazione che comunque richiederebbe tempo e che per ora pare non essere la prima opzione percorribile, mantenendosi invece sul binario ufficiale. Detto ciò, sarebbe auspicabile mi esibissi in una chiusura un poco dimessa. Invece dall’ultimo di febbraio all’albeggiare del giorno odierno, qualcosa di grasso, persin lardellato, è capitato. Nessun fervorino per il padiglione ucraino (La Triennale di Milano martedì comunica che il padiglione ucraino si farà). Il pianeta arte
semmai è stato aggirato con una manovra evasiva involontaria: la rinuncia di artisti e
curatore al Padiglione della Russia, che dunque rimarrà chiuso. La scrittura degli
interessati non lascia spazio al dibattito, il 28 febbraio la notizia è di ampia diffusione. Da qui è necessario che sfoggi l’andazzo certosino sull’accuratezza. Il direttore d’orchestra Gergiev è ormai stato allontanato dalla Scala milanese, non si parla d’altro. A Paolo Nori viene comunicato il primo giorno del mese di marzo (di sera, se non sbaglio), del “rimando” delle sue quattro lezioni da tenersi nel corrente mese. Avrebbe dovuto parlare alla Bicocca di Milano, in corsi aperti, della figura di Dostoevskij. Indubbiamente sorpreso, poi scioccato, arrabbiato, il nostro contrasta la decisione maldestra dell’Università , evidentemente a corto di vita contemporanea e di pratica mediatica, con altrettanta maldestra tenacia. Non mi risulta che abbia provato a contattare il Rettorato (forse mi mancano dei dati) o, perlomeno, abbia atteso per comprendere attivando un canale diretto con la controparte. Invece compie un atto determinante: si reca su instagram ben sapendo che lì troverà le falangi dell’indignazione pronte a marciare. Il clima attuale, i fatti bellici, le
tensioni sociali, le menome angherie o le mancanze banali, tutto si compatta in una polpetta avvelenata da mandare in rete dove Nori comprende da utente di non voler solo comunicare il torto, ma di scaraventare reazione, diciamocelo: facendogliela pagare. Non ci vuole molto, lo sappiamo. Il tentativo d’aggiustamento dell’istituzione il giorno seguente è del tutto inutile. Siamo a corto d’informazioni per sapere se accanto alla figura di Fedor davvero volessero accostarci, per equilibrismo culturale, autori ucraini deviando dunque il corso che si sarebbe dovuto comunque svolgere, ma così affermano. Nori non accetta le nuove coordinate ed il piatto è pronto. Ma ormai le fauci social hanno il loro biancostato che ha un sapore antico: la censura. La stessa che Nori ignora stia montando nel mondo artistico ma per altra ragione. Perché quel cadavere di rana da esperimento elettrico che è rimasta la coscienza degli artisti, ha scossoni in rarissime eccezioni, una è il sospetto di esser stati limitati o che dietro ad una spiegazione di facciata ci sia del torbido. Nessuno infatti, dall’ultimo giorno di febbraio, ha più letto il comunicato proveniente dal padiglione russo e la dietrologia, sui social, ha figliato. Sospetti in ordine di: russofobia, ingerenze da parte della Biennale, contrasti etici con gli autori, boicottaggio, obbligo di dimissioni di curatore ed artisti, azzoppamenti del progetto, occidentalismo, atlantismo, ipocrisia ed altro, si prendono la scena. Il senso dell’impedito o del supposto limite, si compattano in un polpettone di certezze, dove anche la vicenda del giornalista, inviato a Mosca, Marc Innaro, alimenta il motore delle supposizioni. Il termine dell’indignazione, impossibile da definire per cause guerresche, è ancora lontano e la ricerca della censura è nel corso degli anni, divenuta un attività agonistica praticata con competenza olimpica da svariati
amatori. Dopo il politicamente corretto, una stortura italica raffinatissima e dagli esiti
spesso giullareschi, ultimamente siamo ritornati al nostro amore: dimostrare indignazione a comando e soprattutto nel minor tempo possibile. Portiamo a compimento il padiglione ucraino, nonostante la mancanza grave di quello russo ma diamoci una regolata. Non dobbiamo sempre, per arte o vita, sfoderare i canini, si può anche attendere.