GIORGINA DELLA PORTA X FRANCESCA DISCONZI
Sono stata per caso abbagliata dalla femminilità della figurazione e dal carattere fortemente teatrale e narrativo del lavoro di Giorgina della Porta.
L’artista mi ha parlato dell’amore per il teatro popolare, per la letteratura e dell’ammirazione per gli scritti filosofici di Giordano Bruno. Quando le ho chiesto quale fosse un testo che influenza il suo fare artistico, ha citato “Lacrime e Santi” di E.M. Cioran, un testo del 1937 che mette in luce la passione dell’autore rumeno per i mistici.
Credo ci sia un’intima connessione tra questo aforisma e il lavoro di Giorgina della Porta:
“Come non sentirsi vicini a Santa Teresa che, essendole apparso Gesù, uscì di corsa e si mise a ballare in mezzo al convento, in un trasporto frenetico, battendo il tamburo per chiamare le sorelle a condividere la sua gioia? (…) l’ardore in lei non smise di crescere, al punto che il fuoco della sua anima non si è mai spento, se ancora oggi ci riscalda”
Attimi bloccati nel tempo, carichi di spiritualità e narrazione. La sensualità trascendente della danza di Santa Teresa descritta da Cioran è frutto della vicinanza della Donna-Santa con Dio.
Queste poche righe parlano di santità e musica (è palpabile il ritmo del tamburello che accompagna la danza) due leitmotiv del testo, insieme alle lacrime. Santità, musica e lacrime sono sottilmente intrecciati tra loro:
“Ogni vera musica è sgorgata dalle lacrime, nata com’è dal rimpianto del Paradiso“
e rappresentano per Cioran, le vie per sfuggire alla banalità del vero e per superare la finitezza dell’uomo.
Ecco che l’arte diventa veicolo per superare la paura (o ancora peggio l’indifferenza) della morte:
“Il Medioevo ha conosciuto il sentimento della morte con un’intensità unica, ma ha saputo, grazie a un’arte particolare, incorporarlo al tessuto più interiore dell’essere. Nessuno intendeva barare di fronte alla morte“
Credo che quest’idea di morte (e il suo superamento) permei il fare artistico di Giorgina: un costante monologo con il suo Dio, immaginato come “un’enorme macchina della mente a cui gli uomini hanno dato il nome di Arte”. Proprio come nell’arte medievale citata da Cioran in questo passo, nel lavoro di Giorgina c’è una predilezione per la bidimensionalità e per una figurazione capace di bloccare la scena nella tragedia o nel salto nel vuoto (2) rendendo le figure immortali e cariche di una sensualità trascendente. Questa capacità di coagulare il suo dialogo mistico nelle opere è tuttavia per lei un atto naturale, una conseguenza del suo esistere poiché:
“Esiste una predisposizione alle lacrime che si manifesta in una valanga interiore“
GIORGINA DELLA PORTA
Lacrime e Santi è una raccolta di intime riflessioni sui sommovimenti interiori e sulla ciclicità del pensiero di Cioran. Campana stonata per i suoi contemporanei, nelle sue parole trovo il conforto di un amico. Leggendolo, ho capito da subito che sarebbe stato come incontrare un mio simile, qualcuno che prima e meglio di me ha saputo sorridere amaramente della tragicità della vita. “Al giudizio finale verranno pesate soltanto le lacrime! Il racconto incessante della piccolezza umana è commovente nell’intimo desiderio di superamento di sé; ed ecco che compare la figura del santo. “Come saremmo stati più liberti se non fossero esistiti” È solo nella volontà di superamento di sé stessi che si arriva alla santità, l’ho appena scritto. Bisogna però rammentare che i santi restano uomini. Uomo, santo o artista è lo stesso. Di certo è banale, ma per me non esiste lettura che non racconti dell’arte, la cerco e la vedo in ogni cosa. Penso al Dio di cui parla Cioran, come un enorme macchina della mente a cui gli uomini hanno dato il nome di Arte. In poco i suoi aforismi mutano negli alti e i bassi, nelle liti e nelle depressioni, nei rinnegamenti e nelle riappacificazioni con me stessa verso il mio lavoro. “Riuscirò un giorno a citare solamente Dio? Gli uomini, e perfino i santi, non hanno nome. Soltanto Dio ne ha uno. Ma che sappiamo di lui, se non che è una disperazione che ha inizio dove finiscono tutte le altre?” Non c’è nulla al di fuori di me, tutto è vissuto nelle mie viscere e nella mia mente. Il mondo che passa attraverso il mio sguardo e si coagula nel mio lavoro è un costante monologo con il mio Dio. “Dio ha creato il mondo per paura della solitudine; questa è l’unica spiegazione possibile della Creazione. La sola ragion d’essere di noi creature è di distrarre il Creatore” Il delirio risiede nell’essere il creatore del proprio Dio, identificarsi in esso e dunque non essere mai né nata né morta. Se il mio Dio è immortale vuol dire che io sono immortale. Questo accade solo quando lavoro. Per il resto del tempo vivo nei miei deliri; li racconto sulla carta e con le mani sporche per giorni di nero inchiostro, ed è solo in questi momenti che mi sento viva. “Si crede in Dio solo per evitare il monologo tormentoso della solitudine. A chi altro rivolgersi? Si direbbe che egli accetti volentieri il dialogo e non ci serbi rancore per averlo scelto come pretesto teatrale dei nostri scoronamenti” Devo fare attenzione. Il fuoco per Prajapati è divenuto minaccia di morte, il figlio per la troppa voracità spalanca le fauci verso suo padre per divorarlo. La punizione è cadere giù negli inferi, poiché eguagliare Dio significa precipitare costantemente e sporcarsi nella propria caduta. Questa immagine è per me lavorare. Non esiste un fondo e se mai dovesse esistere non vorrò mai toccarlo, significherebbe scoprire che nulla di tutto ciò che ho appena scritto è vero. Un impatto con la fredda e granulosa terra, che si mostra solo per quello che è, smentirebbe tutto concludendo la mia caduta. Preferisco credere che nulla muoia ma che ogni cosa muti costantemente in una ciclicità infinita; immagino sia una buona consolazione. “Dio si insedia nei vuoti dell’anima. Sbircia i deserti interiori, perché a somiglianza della malattia egli predilige occupare i punti di minore resistenza.”