PRATICHE DISCORSIVE SU ARTE E FILOSOFIA

MARTA M. ACCIARO

Autrice: Viana Conti
Titolo: Pratiche discorsive su arte e filosofia
Casa editrice: Mimesis
Anno: 2021
Prezzo: 10 euro
Pagine: 189


Viana Conti raccoglie un volume di testi editi con traduzioni, interviste, critiche, recensioni tutte a sua firma. Non nascondo un certo risentimento, considerati gli anni di raccolta dei testi, per il suo interesse esclusivo per teorici, artisti e critici uomini, con una assenza totale di figure femminili per le sue ricerche.
Da Baudrillard (forse l’autore più apprezzato da Conti) si passa a Cage, Celant, Szeemann, Lyotard, Luthi, Virilio, Marin e Lacoue-Labarthe. Di fatto la figura di Conti è l’unico fil rouge del libro, scollegato in termini di credibilità interna, coerenza, significazione. Assenti sono le “pratiche discorsive” dichiarate nel titolo: sembra quasi un’operazione di archivio privato portato alla luce senza sufficiente riflessione. E d’altronde il modo di fare critica di Conti appare distaccato, ma al contempo rimane in superficie, non volendo quasi mai a scendere in profondità nelle situazioni raccontate.
Spesso Conti sembra non capire le risposte datele e si sente una tensione straordinaria che dal testo investe il lettore. Si prova quasi un senso di smarrimento e tenerezza.
Porto un solo esempio.

p. 159, conversazione tra V. Conti e H. Szeemann

Risultano problematiche le trascrizioni di maiuscola/minuscola in alcune parti del testo (soprattutto in Baudrillard) che fanno perdere la bussola di significanza su certe parole (“potere”, “storia”); altrettanto lo è l’adulazione per il soggetto-artista (penso a tutte le parti su Cage nel libro) intento a essere espresso nella sua singolare genialità, non lasciando che l’opera parli per sé, introducendola come senza corpo rispetto a una prospettiva in cui la vita dell’opera è autogiustificata da se stessa.

Certamente interessanti però sono gli spunti (come potrebbe essere il contrario con autori quali Lyotard e Marin?) che questi brevi testi ci forniscono, soprattutto inerenti al concetto di sublime in Lyotard e di postmoderno in Marin. Queste due sono ragioni più che sufficienti per leggere il libro, insieme all’insistenza dell’autrice di chiedere ad ognuno dei suoi interlocutori di procurarle un autoritratto: le risposte sono molteplici e sorprendenti. Proporre ai propri lettori e alle proprie lettrici autoritratti degli autori con cui Conti discute fa sì che si inserisca in quella tradizione che dagli anni ’70 in poi ha evitato il più possibile una certa appropriazione degli interventi degli artisti a cura dei critici. Conti si trova in una via di mezzo di questo tentativo e risultato, fra l’indefinitezza della sua scrittura e la totale fruibilità del volume.

Difficile fare una critica di questo volume proprio perché si presenta come una raccolta personalissima, suscitando più curiosità per la curatrice piuttosto che per gli autori da lei scelti.