CONVERSAZIONE TRA DAVIDE MINEO E MARTA M. ACCIARO

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SPIN-OFF: DAVIDE MINEO X MARTA M. ACCIARO

Davide Mineo (Palermo, 1992) è un artista che ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Palermo e continua a lavorare in ambito palermitano dal 2015, sia in solo exibithion sia in mostre collettive in ambito nazionale.

Le sue opere sono riflessioni sul fare e sul gesto pittorico; i titoli che usa sono descrizioni del momento in cui l’opera nasce.

Ci siamo incontrati all’Osservatorio di Palermo (di Bigi, Romanelli e Di Piazza) e da quell’incontro abbiamo iniziato un intenso dialogo.


Stemma, 2018 – courtesy of the artist

Marta M. Acciaro: Il nostro è un incontro prezioso.

Ci siamo incontrati/scontrati la prima volta sull’idea di “monumento”.

La mia posizione era “il monumento va abbattuto”.

In “Che cos’è la filosofia?” Deleuze e Guattari però leggiamo: “[…] ogni opera d’arte è un monumento, ma il monumento non è in questo caso ciò che commemora un passato, è un blocco di sensazioni presenti che devono solo a se stesse la loro propria conservazione e danno all’evento il composto che lo celebra”.

La tua idea di monumento possiamo dire sia molto simile alla loro?

Davide Mineo: Assolutamente sì!

La mia idea è una sorta di automonumento, l’opera non celebra una memoria altra, se non la sua stessa esistenza e presenza, diventa un’enfatizzazione dei gesti e dei pensieri che di fatto la generano e la compongono, sia nella sua realtà semantica quanto nella sua realtà concreta e fisica.

M.A.: Le tue opere sembrano essere una riflessione sulla pittura. In che senso intendi la pittura?

D.M.: In questo ultimo periodo penso la pittura quasi come la mia “tenda da campo” non nel senso abitativo del termine chiaramente, diventa quell’esistenza personale da portare e piazzare dove serve, è la fase più istintiva del mio lavoro e anche la più misteriosa per me, di fatto ci sono state fasi della mia vita in cui ho anche provato ad abbandonarla, forse come tutti i pittori, ma alla fine è una necessità che ritorna sempre.

È un insieme di gesti, e prima ancora pensieri, essi sono solo nella mia mente, sono mutevoli, sfuggenti, cambiano forma si mescolano ad altri, a volte è davvero difficile bloccarli e scrutarli, la pittura li rende tangibili, e io posso osservarli e studiarli, sia nel momento sia nel futuro poiché restano tali non si sbiadiscono ne confondo con il trascorrere del tempo. 

M.A: E se volessimo parlare dell’immagine in generale? Cosa sono per te le immagini?

D.M.: Penso molto in questi giorni alle immagini al rapporto che hanno fra loro, ed a come tramite l’osservazione di questi rapporti risulti paradossalmente più “chiara” una visione sulla natura umana più profonda, quasi come se il mondo delle immagini fosse in un certo senso un modello matematico per capire eventi estremamente complessi.
Di conseguenza ogni immagine dalla più banale alla più profonda è un “dato” di questo modello. Alla luce di ciò leggo un mondo umano che si sta muovendo in una direzione estremamente piatta.

M.A.: Ci siamo incontrati nel tuo studio e mi hai fatto vedere le tue ultime opere.

Puoi descrivere cosa intendi con il concetto “opera da studio” di cui mi hai parlato?

Nello specifico, potresti parlarmi di quest’opera agganciata alla parete, intitolata “Stato di quiete”?

D.M.: “L’ opera da studio” è un’opera predisposta al cambiamento, in un certo senso plastica, come la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di modificare la propria struttura e le proprie funzionalità a seconda ad esempio a stimoli ricevuti dall’ambiente esterno, in reazione a lesioni o modificazioni o al processo di sviluppo dell’individuo.

Lo studio di un’artista è per eccellenza un luogo dedito allo sviluppo del pensiero e quindi anche alla forma dell’opera.
Nel caso dell’opera citata, quel tipo di aggancio nasce anche in relazione all’ambiente in cui si è evoluta. Con questo non intendo assolutamente dire che l’opera sia un “Site specific” ma che inevitabilmente muta a seconda della zona in cui si sviluppa e trova sostanza; detto ancora più “banalmente” se l’avessi creata in un altro luogo probabilmente sarebbe nata anche una soluzione diversa per l’aggancio in questione.

Stato di quiete, 2021 – courtesy of the artist

M.A.: Come dialogano i tuoi gesti istintuali con la precisione millimetrica dei tuoi studi?

D.A.: Credo che una fase equilibri l’altra, sono molto legato al mio istinto, al “caso”, che chiamiamo cosi per comodità ma che non credo esista davvero, ma se fossi soltanto governato da questo sarebbe folle e controproducente.
Mi piace definire l’istinto come una fase meccanica del lavoro, mentre il pensiero e la precisione lo costruiscono, strutturano, mantenendo la casualità una preziosità e non una zavorra.

M.A.: Come intendi la congiunzione tra materiali metallici e leghe e i tessuti che usi?

Come dialogano tra di loro?

Usi prevalentemente tele o anche altri tessuti?

D.M.: Sono molto legato all’idea di bellezza, la ritengo fondamentale come ideale da contemplare, e a mio avviso la contemplazione in quanto azione ed osservazione spirituale è sufficiente a giustificare un’opera d’arte. La bellezza passa necessariamente anche attraverso la scelta di alcuni materiali piuttosto che altri: rame, metalli vari o tessuti mi aiutano in questa direzione, inoltre, più che altro per natura personale, sono molto legato al valore tattile di alcune materie o ad alcuni odori.
In realtà sto usando molto la tela nell’ultimo periodo, ma in passato ho usato diversi tipi di tessuti: juta, ecopelle, velluti ed altri tessuti sintetici.

M.A.: Potresti parlarmi della tua opera che amo e stimo di più, “In, dentro” del 2018?

D.M.: È una ricerca di valori concreti ed intimi, che ritengo per me fondamentali, ancor di più oggi che due anni fa paradossalmente, in un periodo storico come quello in cui viviamo oggi, in cui tutto è estremamente veloce e leggero, digitale e destinato all’inconsistenza, non esiste più una presenza tangibile dei segni e delle immagini ed ogni cosa che rapidamente ti colpisce altrettanto rapidamente sparisce.
È un lavoro di conquista dell’ambiente, non inteso come luogo specifico, ma un ambiente vitale all’ opera, i cinque metri quadri in cui diventa presenza.
Tecnicamente è realizzato da lamiere zincate, poggiate in equilibrio tra pavimento e parete, e vernice spray rosso fluo, e si sviluppa per circa tre metri di larghezza e uno e mezzo di altezza.

In, Dentro, 2020 – courtesy of the artist
In, Dentro, 2020 – courtesy of the artist

M.A.: Come si è evoluto il tuo percorso da “In, dentro” alla tua ultima opera?

Quali cambiamenti hai riscontrato nei tuoi lavori in questi anni?

D.M.: Nonostante io sia estremamente legato al fare, credo che comunque questo sia necessariamente subordinato all’essere, per cui credo che i miei lavori siano cambiati anche e soprattutto in relazione alla la mia essenza e la mia consapevolezza di essa, e di sicuro ancora cambieranno.
“In, dentro” è stato il primo lavoro dopo un mio blocco rispetto alla pittura e al gesto pittorico, lo spray di fatto è sì una presenza pittorica ma gestualmente mi tiene a distanza dalla pittura; oggi invece è una responsabilità che riesco ad accettare e che al momento non intendo assolutamente abbandonare.

M.A.: Progetti per il futuro?

D.M.: Domanda impegnativa, e alla luce del momento pandemia che viviamo oggi è davvero difficile ipotizzare una lettura del futuro (sempre che sia mai stato realmente fattibile) ma sicuramente un futuro esiste già, lo andrò scoprendo, di certo continuerò a fare e pensare.

Elementi costruttivi, 2020 – courtesy of the artist
Elementi costruttivi, 2020 – courtesy of the artist