TANTE DOMANDE AL CAFFÈ NAZIONALE

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ALESSIO MOITRE

Se foste stati Carlo Albero di Savoia, non vi sareste alzati ogni mattina se non con un pensiero in testa: sapere di cosa parlassero al Caffè Fiorio di Torino, ritrovo e forse covo, di buona parte dell’intellighenzia subalpina di indirizzo conservatore. La leggenda ha impreziosito il fatto che la vicenda toccasse una premura niente affatto puerile che nella sua sostanza ci impania ancora oggi: captare, traudire o meglio, anticipare, le voci di corridoio, praline delle malelingue e pepe scandalistico di stampa non ufficiale ma strilloni sociali a cui tutti noi prestiamo orecchie con spirito da pettinatrice. Città più delle volte, nazione se proprio ingolosisce, l’arte si provincializza pavesianamente volentieri, seppur la morale non sia il contendere. Ed è in questi avamposti che si rigenera di ciarle, fole e sentimenti. Soprattutto perché non sa cosa pensare di settembre. Se debba osservare il mese con circospezione, sondandone pacatamente le opinioni o se sia legittimo ridonarsi alla restaurazione delle abitudini, ignorando ogni attrito con il presente. Fatto sta che nei nostri “Fiorio” si disquisisce, suggellando la giornata con domande che a noi paiono nervali, nello spirito di una dialettica quasi ottocentesca da vecchio movimento creativo. Se sei torinese non puoi non domandarti: The Phair? Era da farsi? Come la vedete? Ma in questo il paese intero dell’arte si pone il quesito, magari non proprio con assillo ma almeno un pochino. Onestamente pare presto. Nella maggior parte dei pettegoli non basta il titolo di prima fiera italiana a riaprire (o forse anche fuori dai confini), per arroventare gli animi. Le manovre potevano essere rimandate. Si porta a giustificazione gli impegni, i soldi, l’imprenditoria, la ripresa. Se ne rimane comunque freddi. Apprezzabile lo sforzo, buoni nomi, un certo friccicolio da parada (così un tempo chiamavano le mostre nei vicoli savoiardi) e uno spolvero al vestito sbarluccicoso che fa bislacco però si attende di aver torto. I numeri e i dati parleranno per gli scettici. Se andasse in porto (o forse non è per nulla necessario) si riposizionerebbe l’umore del comparto, per altro assai malaticcio. Per scantonare dal discorso ormai stopposo giunge un filosofico e sociale tema che in fin dei conti è sempre stato lo stesso ma si è mimetizzato perché la civiltà italica è ben curiosa. Ma è indubbio che il quesito: “Utilizzeranno la gioventù come brand da acchiappo? E in che modo se ne approprieranno? Abbiamo un ventaglio di spunti che si trascolorano volenterosi. L’economico “next generation” ha sovrastimolato le conclusioni affrettate, portando i furboni e traffichini ad immaginarsi piani e sotterfugi per accalappiarne almeno il fascino connesso (per il contante si deve ancora attendere). In questo varie operazioni sembrano volgere al peggio, con iniziative pimpate o messe in campo al fine di lisciare il pelo al clima attuale. Mostre, fiere, esposizioni, articoli, libri, indagini, premesse, pretesti, frasi, intenzioni, promesse sembrano aver nel cuore il fabbisogno emotivo, vitale e futuribile dei giovani. Il gatto e la volpe della nostra storia paiono in realtà volti noti e un certo contrabbando di buoni sentimenti in cui il paese (soprattutto per stampo politico) ci si è andato a mettere la testa. Il risultato però è un tentativo perbenista e molto interessato di appropriarsi della gioventù, di porsi un nuovo cappello sul capo come contestatore delle regole imposte. Nei prossimi mesi spunteranno progetti, percorsi studiati, iniziative rivolte “al futuro della nostra nazione, ai giovani, che fanno fatica a fare questo e quello, che per quanto sfortunati e ammaccati da mesi di reclusione ora hanno una grande occasione per rilanciare tutti noi e loro stessi, per questo noi ci crediamo, come sempre, si badi bene”. Ho sempre pensato che dovesse esistere un bignamino con le boiate necessarie da affermare sulle nuove leve. Perché sforzarsi tanto quando i nostri precedessori hanno così operato saggiamente. A tal proposito, l’operazione appena terminata della Naba milanese: “Blackout Book”, una presentazione efficace in quattro atti di studenti/artisti selezionati da altrettanti curatori, ci pone nella scomoda posizione di ammettere che a parte l’Accademia meneghina, attorno pare essersi formato un gerbido o una grillaia d’erba alta. Altri stimoli di creatività ogni tanto giungono dalle Marche, che esistono, nonostante la geografia ormai esodata dalle scuole, l’abbia sempre sostenuto, e da lucine che ogni tanto si accendono ad intermittenza. Per il resto è forza di volontà dei protagonisti, ogni tanto spalleggiati da professori degni di un’erbaccia da campo tanto sono resistenti nel loro operare. Ed allora è naturale che in taluni anfratti del Caffè si sostenga l’inutilità di un istituzione vista dallo stato come secondaria. I fatti mi paiono illuminanti. Non sarebbe meglio creare altro, rivedere il sistema, sopprimere l’istituzione che in certe città è bucacchiata da incuria e promesse mancate? Lo scoramento ti scala facilmente e non nego di aver pensato, più volte e di averlo pure detto in pubblico in occasioni solenni, che gli studenti farebbero meglio a prendere picche e forconi ed assaltare la struttura, impedendo che proseguisse il suo stentato operare. Una parte della mia psiche non rinnegherà mai il proposito ma nonostante lo spirito audace alla Danton, mi rendo conto che è un applicazione bamboccesca e che in fondo non risponde a nessuna domanda. L’Accademia non è ancorata ai tempi ed avrebbe bisogno di un minor numero di studenti (ma è fattibile?), fatica a dare una prospettiva ai suoi allievi, che sono sovente etichettati come perditempo visto che non frequentano la più ragguardevole Università, che sforna ben pochi laureati visto il nostro basso dato su base europea, e non andiamo oltre sennò sono fratture. Inoltre le strutture manifestano l’attaccamento profondo verso gli studenti. Fatiscenti, mal gestite in aule e possibilità, in attesa di migliorie rimandate a ministro da destinarsi. La preoccupazione è di venir colonizzati da un arte di stampo maggiore (proseguendo l’interruzione con la storia che già la letteratura sta sperimentando e che soprattutto gli scritti di Giorgio Ficara spulciano benone), di sicuro meglio equipaggiata per affrontare la nuova lotta Occidente contro Oriente, che ci accompagnerà per almeno un decennio (ma sto sottostimando perché non riesco a strologare così efficacemente). Dunque, con partecipazione nazionalistica rinforzata dagli eventi calcistici in corso, rimane in piede l’ultimo tema di dialettica: La nuova generazione dell’arte che sapore ha? Liso argomento ma a settembre si riproporrà rimpannucciato e compatto nelle sue ostruzioni. Una ragazzina di dodici anni, alla fine dell’anno passato, di nome Anita, si è scoperta essere un’intellettuale gramsciana estratta dalla più pura miniera del pensiero. Impegnata, costante, chiara nelle sue intenzioni. Come da tradizione, è stata oggetto della mediocrità di una parte della popolazione italiota piccata nell’orgoglio, vistasi svelata nella loro disillusione appiccicosa. Non ha galleggiato, ha imposto il suo pensiero relegando il livore decostruttivo a banalità. Nella generazione entrante esiste una protezione alle fanfaronate sociali. Lo dimostra l’interesse verso le circostanze occorseci. Hanno lo slancio non della prima ora. Si comprende come si sbraciasse da un po’ la carbonella e di questo non possiamo che provare un certo interesse. Pur tuttavia temo che da settembre, varianti o meno, verranno sfruttati per le più interessate volontà di fratelli maggiori, genitori o nonni, che sono rimasti azzoppati da un fenomeno storico che segna l’entrata in un circuito diverso della vita di ognuno di noi. Non ci sono barriere di protezione per un fenomeno simile. Si può solo sperare di aver investito bene nella formazione e che i canali d’acqua non siano stati contaminati. Dopotutto i predecessori o i più adulti, debbono difendere una superiorità monetaria e ideologica che non hanno saputo adoperare, negandosi alle responsabilità e decampando verso dei sostituiti o feticci di credibilità. Noi possediamo una pandemia che nasconde una epidemia ben peggiore e duratura: l’inadeguatezza della nostra classe dirigente. La stessa che dirige anche istituzioni d’altissimo profilo e che, facendoci seri prima di uscire dal Caffè, ci rendiamo conto di aver anche noi foraggiato e ingrassato. Questa non è arte. È la fonte da cui attinge. Direi che è ben peggio. Vediamo però dei rigagnoli che sbisciano via dalla corrente principale. Possiamo puntarci non da sognatori. Basta dare nomi alle nuvole. Possiamo anche costruire e l’intraprendenza servirà (per ora il forcone forcuto lo ripongo in cantina, un po’ deluso).