LIDIA BIANCHI X VIRGINIA VALLE
Lidia Bianchi è nata a San Felice Circeo nel 1992. Dopo una laurea triennale in Arti Visive all’Accademia di Roma, attualmente vive e lavora a Milano, dove si è laureata in Fotografia all’Accademia di Belle Arti Brera.
La sua ricerca artistica si concentra sugli Altrove, luoghi archetipici e indefiniti che ritrova spesso rifacendosi all’immaginario antropologico contemporaneo e al mito, in un dialogo costante con la sua terra natia.
Nell’intervista che segue abbiamo approfondito gli anni della sua formazione, l’approccio e lo sviluppo della sua ricerca insieme ai suoi ultimi progetti e le mostre che la vedranno coinvolta prossimamente.
Virginia Valle: Prima di affrontare un biennio specialistico in Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Brera hai studiato Arti Grafiche a Roma. Perché hai scelto la fotografia come medium per tradurre la tua ricerca?
Lidia Bianchi: In realtà, quando mi sono iscritta al triennio di Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Roma, nel 2012, mi sarei piuttosto voluta iscrivere ad un triennio di fotografia, se solo fosse esistito. Ce n’erano alcuni in giro per l’Italia, ma tutti in Accademie di Belle Arti o Istituti di Design privati che non potevo permettermi. Negli ultimi anni per fortuna alcune Accademie di Belle Arti pubbliche italiane hanno attivato il triennio di fotografia, e spero che succeda presto la stessa cosa anche a Brera, dato che i docenti che potrebbero “portare in alto” questo corso di studi ci sono già.
Ai tempi, la grafica d’arte e le sue tecniche incisorie e di stampa mi suonavano totalmente sconosciute. Il bello è che alla fine ho scelto quel percorso di studi proprio per questo motivo.
Tutto il resto mi sembrava molto limitante, o comunque adatto solo a chi veniva dal liceo artistico ed aveva già una certa impostazione e conoscenza tecnica. Io, dopo 5 anni di scientifico, non sapevo nulla di tecniche pittoriche, scultoree, plastiche o di grafica editoriale, e tantomeno di storia dell’arte. Ma sentivo un richiamo viscerale verso l’immagine, la visione, lo sguardo e le sue possibilità.
Inoltre fin da bambina avevo sempre nutrito una grande fascinazione per il processo fotografico e la sua magia. Quando non conosci i principi fisici che portano alla formazione dell’immagine su un supporto, digitale o analogico che sia, la fotografia può sembrarti davvero qualcosa di magico. La realtà che entrava in una scatolina quando premevi un pulsante, immagini negative su plastica trasparente che diventavano fotografie su carta nelle mani del fotografo di paese: tutto questo per me era magia, vera e pura. E un po’ lo è ancora, nonostante ora io conosca tutti i principi fisici che generano un’immagine.
Comunque alla fine il triennio di grafica d’arte si è rivelato estremamente versatile, sia dal punto di vista delle tecniche artistiche e delle teorie apprese, che da quello dei riferimenti, dei temi, delle ispirazioni.
E la fotografia c’è sempre stata, ha accompagnato il mio segno anche durante gli studi di incisione.
È stata referente, indice, segno, modello, ispirazione, ma anche risultato finale di molti progetti partiti dal gesto incisorio e dalla stampa a torchio. Finito il triennio, mi è stato chiarissimo quale percorso volessi intraprendere: quello dell’immagine fotografica.
Oggi la fotografia ancora mi entusiasma e mi ispira ancora e sempre di più, perché l’immagine fotografica è un portale, in quanto si tratta di un qualcosa che appartiene ad un momento preciso dello spazio-tempo, che è necessariamente altro rispetto a quello di colui che ne fa esperienza. Un’immagine fotografica, stampata su supporto o meno, è inoltre una superficie di significato stratificata, attraverso la quale guardare e proiettare, filtrati, sé stessi e il mondo. Come un portale, ci trasmigra in una realtà parallela, altra rispetto alla nostra, pensata dall’artista. La fotografia non è il solo medium che fa questo, ma le sue caratteristiche a metà tra pura emanazione del referente, inconscio ottico che può vedere più dell’occhio umano, accedendo all’inconoscibile, e strumento sotto il totale controllo creativo dell’artista, fanno di essa il medium ibrido per eccellenza, capace di creare livelli ontologici e gnoseologici complessi e stratificati. Perché è proprio la promessa della fotografia di essere effettiva emanazione del reale che accresce il grado immaginifico di ciò che è rappresentato.
Io personalmente utilizzo la fotografia analogica medio formato, nel dettaglio una Mamiya RB67 a pozzetto. Essendo una macchina piuttosto datata e con numerosi difetti tecnici, che per scelta non faccio sistemare, è impossibile aspettarsi una mera rappresentazione del reale, né tantomeno la riuscita esatta dell’immagine che avevo in mente: il risultato finale è sempre una sorpresa. Il caos che prevede questo tipo di scelta è quindi parte integrante e imprescindibile della mia pratica artistica.
V.V.: Il tuo interesse principale sembra orientarsi sugli Altrove. Luoghi indefiniti, archetipici, universali, aperti a una moltitudine di interpretazioni. Ci puoi spiegare meglio?
l.B.: Riconosco nell’altrove-da-qui l’oggetto nel mirino della mia ricerca. Ho cominciato ad interessarmi all’immaginario legato all’altrove e alla distanza durante gli anni della mia formazione in fotografia a Brera. Durante tutto il primo anno di studi mi scontrai con una crisi artistica: non sopportavo più le immagini e cercavo la smaterializzazione dell’oggetto d’arte -e dell’immagine-, soggiogata dalla fascinazione per le ricerche concettuali degli anni ’60. Dopo questi sconvolgimenti, mi riappacificai lentamente alle immagini, e alla fotografia come creatrice di immaginari, proprio grazie a queste forme archetipiche, che intravedevo nelle fenditure della realtà, attraverso il mirino della macchina fotografica.
Potrei dire che il mio lavoro è incentrato sulla ricerca -senza sosta e che non prevede riuscita- dell’arcaico insito nel contemporaneo. Si tratta di una arcaico agambeniano, dunque parallelo al presente, contemporaneo al divenire storico, ma impercettibile e sfuggente. Penso che l’artista sia in grado, attraverso la sua pratica, di ripristinare immaginari attraverso cui entrare in contatto con le originarie arcaicità umane da cui la modernità ci ha alienato e disidentificato. È per questo che oggi la ricerca artistica in generale risulta fondamentale per colmare le perdite del nostro tempo, per ripristinare i riferimenti perduti, per ritrovare le lucciole pasoliniane.
Nel mio lavoro in particolare questa ricerca verso l’imperscrutabile arcaico si manifesta tramite l’attingere ad un immaginario tellurico, che richiama sensazioni ancestrali, calato nel paesaggio antropologico contemporaneo.
V.V.: Come scegli i soggetti delle tue opere?
Non li scelgo. O meglio, non li scelgo più. Quando ho smesso di pensare a cosa fare e ho piuttosto guardato cosa stavo già, più o meno inconsapevolmente, facendo, ho cominciato a lavorare in maniera più sensata, e soprattutto più libera.
Un mio mantra: Do not try to create and analyze at the same time, they are different processes.
Lo scrisse John Cage nel suo decalogo per studenti ed insegnanti.
V.V.: Spesso gli scatti che realizzi nascondono rimandi alla tua terra d’origine, San Felice Circeo. Penso ad esempio alle serie Nostalgia (2018), Indacoterra (2019) e Mi ricordo, a casa, la primavera, 2020. Che rapporto hai con le tue radici?
L.B.: Viscerale. E me ne sono accorta proprio andando via, e guardando alle mie spalle attraverso il lentino della nostalgia: la distanza fisica modifica lo sguardo, e la distanza ontologica tra il soggetto dell’indagine e il mezzo con cui si svolge tale indagine modifica la visione. Nel distacco ho guardato, e finalmente ho visto.
Il folklore legato al mito della maga Circe, insieme a tutte le sovrastrutture di comunicazione commerciale dello stesso che ne derivano, avevano saturato completamente la mia vista e la mia percezione, rendendomi cieca alle epifaniche visioni e sorda ai sirenici richiami che quotidianamente abitavano i miei spazi. Poi mi accorsi, col tempo, che il distacco geografico aveva ripulito i miei sensi, e ad ogni saltuario ritorno a casa lo stupore e la meraviglia erano sempre maggiori e, come pietre focaie, facevano volare imperscrutabili scintillii nell’aria. Ho quindi cominciato a viaggiare nei pochi chilometri dei luoghi di casa come se stessi scoprendo un continente sconosciuto, antico. Ho visto, nel pozzetto della mia Mamiya analogica, luoghi e tempi altri, mai esperiti, manifestarsi nell’inquadratura fotografica come se fossero sempre stati lì ed aspettassero solo di essere, finalmente, visti.
V.V.: Anche il mito è un elemento su cui spesso poggiano le tue opere. Da dove nasce questo interesse e come si declina nel tuo lavoro?
L.B.: Sono nata e cresciuta nel paesaggio del mito. Il Circeo viene riconosciuto dai filologi come la dimora della maga Circe e quindi location del suo incontro con Ulisse. Fin da bambini, a scuola, ci hanno fatto fare progetti artistici pomeridiani sulla maga Circe ed Ulisse, l’Odissea, e su tutti i luoghi di interesse archeologico e geologico del Promontorio del Circeo e del suo parco nazionale. C’è anche un folklore potentissimo tra gli autoctoni. Oltre ai prodotti di merchandising che da anni affollano i negozi del centro storico, i cani che si chiamano Circe (compreso il mio), le insegne dei negozi intitolate ai due personaggi omerici, c’è un qualcosa di più oscuro e sommesso. Un specie di reverenza. C’è questa cosa che noi paesani di solito facciamo…può sembrare strano, ingenuo, forse tenero. O anche semplicemente folle. Quando camminiamo per i sentieri del Promontorio, visitiamo le grotte, scaliamo il Picco di Circe, passeggiamo nella selva del Parco Nazionale, ci rivolgiamo sempre a lei, a Circe, chiedendole il permesso di raccogliere cose, pregandola di non fa piovere, di non farci inciampare e cadere in mare dalla scogliera…e cose così. Tempo fa, quando andai dietro al Promontorio per recuperare alcune pietre per Indacoterra, mia madre mi disse, al mio ritorno: “Ma hai chiesto il permesso a Circe per portarli via?”.
Per dire.
Tutto questo è sempre presente in qualche modo, più o meno esplicito, nel mio lavoro perché è in me, è nel mio sguardo. La sento, questa potenza femminile universale che aleggia nei suoi luoghi, il cui riverbero riecheggia nel paesaggio. Ed ora la vedo anche.
V.V.: Le tue ultime opere si focalizzano sul mar Mediterraneo, come nella serie Telluriche (2020). Come si sta evolvendo la tua ricerca?
L.B.: Sto cominciando ad ascoltare i richiami irrazionali, quelli che sento se annullo un po’ tutte le miriadi di cose che mi attraggono e di cui vorrei parlare nel mio lavoro. E allora il mio sguardo cade irrimediabilmente sulla mia terra e quello che è sempre stato sotto i miei occhi e sulla mia pelle: il mare, la geomorfologia mediterranea, i venti.
Ora sento il bisogno di parlare di queste mie terre e del riverbero dell’invisibile nel paesaggio, che irrimediabilmente si manifesta quando guardo nel pozzetto della mia Mamiya.
Ne Le telluriche in particolare lo sguardo è laterale, si posa sulle cose che accadono anche quando nessuno le vede. È un Mediterraneo inosservato, fatto di immagini che sopravvivono al caos del suo preesistente immaginario e che suscitano l’intuizione estetica nella sua forma più pura. Le telluriche rispecchia perfettamente la mia modalità di lavoro, quella che ho trovato senza cercare: guardare a quello che sto già facendo, piuttosto che decidere cosa fare. Si tratta di immagini che ho raccolto durante alcuni dei miei viaggi degli ultimi anni, che sono stati perlopiù brevi peripli mediterranei. Durante il primo lockdown di marzo 2020, ho avuto modo di sistemare il mio archivio di pellicole, sia quelle di lavoro che quelle delle vacanze. Tra selfies con gli amici e foto ricordo di varia altra natura, ho visto che c’era quelle che io chiamo le mie cose, le mie visioni, il mio lavoro. Ho così voluto raccogliere queste immagini in una prima pubblicazione, che vedrà la luce a breve sotto forma di dummy photobook autoprodotto. Si tratta del mio primo di una serie di raccolte, perché penso proprio che non smetterò mai di girare il mediterraneo con gli amici o da sola, e i miei occhi saranno sempre lì a vedere le cose che accadono, silenziose, anche quando nessuno le guarda.
V.V.: Ci anticipi qualcosa sui tuoi progetti futuri o su eventuali opere in cantiere?
L.B.: A breve vedrà la luce il dummy de Le telluriche, che vedo un po’ come la prima parte di un’epica della lentezza, dal tono discreto e sommesso, che celebra l’intuizione estetica e il momento in cui questa scaturisce da un frammento di realtà. Quello svelamento lì, mi interessa.
Probabilmente tra la primavera e l’estate ci sarà la mostra di Falìa – Artists in residence, il programma delle residenze d’artista a Lozio curato da Alice Vangelisti a cui ho avuto l’onore di partecipare la scorsa estate.
E sicuramente altre mostre che dovevano avere luogo nel 2020 ma che per ovvi motivi sono state rimandate, come per esempio Centrale Festival presso la Rocca Malatestiana di Fano, Bootstrap allo spazio Giacomo di Bergamo, ed altre.
Per il resto, mi sto occupando della produzione di serie di lavori, che nel mio caso sono per la maggior parte immagini, che sono già lì in attesa di vedere la luce della materialità.
Nessun lavoro nuovo per ora, solo continue scoperte di cose che sono già lì, latenti, e che riscopro mentre riordino i miei archivi di pellicole.