ALESSIO MOITRE
Nonostante il gennaio inospitale che stiamo percorrendo, traguardando un cicinino più in là, possiamo ricavarne accenti d’interesse. L’arte contemporanea esiste ancora, non sbracia, né si sbraccia però pubblica comunicati di esistenza. Di tutto sarebbe inutile chiacchierare, forse è nel bozzo di Biennali e Triennali (tante per un solo anno) che si può ragionare, anche se non portiamoci l’entusiasmo perché è ancora impubere. Aprile, Venezia. Inaugura (grattatina di cornetto e passaggio di gingilli naturali e vari) la Biennale più Biennale che ci sia. Titolo: “Il latte dei sogni”, generato dall’omonimo libro di Leonora Carrington. Cecilia Alemani, curatrice designata, afferma in un’intervista al Sole 24ore: “La mostra si concentra in particolare attorno a tre aree tematiche: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra individui e tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra”. Un cesto capiente che appare poco definito ma adatto a contenerci suggerimenti tra i meno pensabili. Corpo, natura, comunità, individuo. Sarò eccessivamente dispotico ma le successive similari manifestazioni, eccezioni poche, paiono comprare le proprie motivazioni dallo stesso negozio veneziano. Perché a giugno, Documenta si presenza con un impostazione altrettanto criptica connotata a partire dal termine: “Lumbung” (granaio di riso in lingua giavanese) voluto dal team curatoriale/artistico Ruangrupa. “Vogliamo creare una piattaforma artistica e culturale orientata, cooperativa e interdisciplinare che abbia un impatto oltre i 100 giorni di documenta 15”. Miriamo a un diverso modello di utilizzo delle risorse orientato alla comunità, non solo economico, ma anche prendendo in considerazione idee, conoscenze, programmi e innovazioni. Se nel 1955 documenta fu lanciata per guarire le ferite della guerra, perché non dovremmo focalizzare la rassegna sulle ferite odierne, specialmente quelle radicate nel colonialismo, nel capitalismo o nelle strutture patriarcali, e contrapporle a modelli basati sulla partnership che permettano alle persone di avere una diversa visione del mondo”. Ed inoltre, per portare una schiarita lessicale in appoggio al progetto: “un caso collettivo o un sistema d’accumulo in cui le culture prodotte da una comunità sono immagazzinate come una futura risorsa comune e condivisa”. Comunità, collaborazione, piattaforma. Facciamo i discoli, scavalchiamo un paio di mesi perché la decolonizzazione è il meridiano della Biennale di Berlino. Saremo già in giugno ed anche i tedeschi paiono intrigati dalla soppesazione del periodo e delle vicende coloniali. A capo del progetto cinque curatrici di origine e percorsi differenti: Kader Attia (direttrice artistica), Ana Teixeira Pinto, Do Tuong Linh, Marie Helene Pereira, Noam Segal e Rasha Salti. Considerato il trascorso di tali operazioni, ricalcando le controversie recenti (anche in termini di restituzioni di opere d’arte ai legittimi paesi d’origine) e le implicazioni culturali non ancora svelate, è una Biennale ad alto coefficiente di rischio, implicazione che potrebbe ingigantire la comunicazione ma innescare dibattiti e scontri. Forse solo Manifesta può contendere ai teutonici il titolo di evento da bollino rosso. Il luogo prescelto per l’anno in corso è Prishtina, capitale dell’acerbo stato kosovaro, territorio indipendente ma conteso dai tempi della dichiarazione unilaterale d’indipendenza dallo stato serbo avvenuta nel 2008. Ad ore perse, se si dovesse consultare il dizionario, al termine balcanizzazione si troverebbero le seguenti definizioni di massima: “Riduzione in uno stato di cronico disordine civile o di frantumazione politica” o ancora “perturbazione dell’ordine interno di un paese con conseguente indebolimento politico o smembramento artificioso in più stati”. Dai tempi del rattrappimento dell’impero bizantino, i Balcani sono stati trapassati da popolazioni, culti, culture tanto da parcellizzarsi in diverse autonomie etniche. Il Kosovo, albanese e serbo allo stesso tempo, detiene il DNA slavo di una perdurante frenesia storica, creata o ottenuta per lavoro proprio. La nomadica Manifesta si è volontariamente andata ad incunearsi in un serpaio che creativamente è un fendente scagliato proprio poco dopo la metà dell’anno, saremo infatti a luglio. Non c’è che dire, è forse l’evento meno inquadrabile e probabilmente il meno adattabile ai canoni del bel mondo dell’arte. Ogni tanto, anche prima dell’apertura, farebbe comodo darci un’occhiata per intravvederne le novità e i possibili colpi di scena. Sorprese che la città di Riga, capitale della Lettonia, ha già fornito. Nel 2020, a poche settimane dall’apertura della Biennale, la condizione sanitaria ha imposto la sospensione. Un contraccolpo assai notevole ma che ha innescato l’inventiva della curatrice Rebecca Lamarche-Vadel. Il risultato della folgorante pensata è un documentario, ad opera del regista Davis Simanis e della stessa curatrice, su un evento che non c’è mai stato, ancora in parte visionabile in forma di trailer. Sul 2022, i lettoni, provano a cullare cauto ottimismo. Segnarsi che inaugurerà una settimana prima di Manifesta (il 15 luglio per l’esattezza). Sidney a marzo e Istanbul a settembre mi paiono invece assai collegate anche se in entrambi i casi, ammetto di non saperne soppesare la portata. L’australiana “veste” un titolo latino: “Rivus” (Fiume), la turca è stata inserita in società da una frase che viene utilizzata sovente per presentarla: “Piuttosto che un grande albero, carico di frutti dolci e maturi, questa biennale cerca di imparare dal volo degli uccelli, dai mari un tempo brulicanti, dalla lenta chimica del rinnovamento e del nutrimento della terra». In entrambi gli scenari, assai diversi per congiuntura sociale e culturale, il peso della natura e della sua amplificata percezione, con l’aggiunta del rapporto con l’uomo, ha un carico di primaria importanza. Capitolo a parte e finale è, ma per intenti potrebbe essere, l’appuntamento di Lione. Saremo in settembre. La sedicesima Biennale francese, curata da Sam Bardaouil e Till Fellrath (anche loro, come i colleghi sin qui citati, sono etichettati internazionali ed indipendenti) ha scelto di percorrere la strada della fragilità come termine di confronto. Il tema, seppur non di primo pelo, ha una materia concettuale di grande rilevanza. Se ne dovrà vedere il trattamento e la presentazione al pubblico. Per l’occasione si è sviluppato un “Manifesto of Fragility”, di cui un una delle motivazione è che: “La nostra fragilità è forse una delle poche verità universalmente sentite nel nostro mondo diviso. Da nessuna parte questo è più evidente che sopra e dentro il corpo. Le nostre comunità, tese da crescenti disordini civili innescati dal rifiuto di inchinarsi di fronte a ingiustizie secolari e iniquità endemiche, provocano nella loro fragilità un accresciuto senso di frenesia sociale. La nostra fragilità è inevitabile”. Il progetto, se ben impiattato, potrebbe essere una chicca, in caso contrario la caduta verso una visione buonista, o peggio, quasi illusoria, potrebbe sortire il rischio di un terribile “vorrei ma non posso”.