In occasione dello screening video della selezione di Osservatorio Futura e Anna Casartelli per Maratona di Visione, presentiamo le cinque opere video con contenuti collaterali.
La selezione è visibile fino a fine luglio al sito del festival
BIO: Artista visivo e ricercatore, ha studiato filosofia, pittura all’Accademia Ligustica di Genova, arti visive e studi curatoriali presso NABA, Nuova Accademia di Belle Arti, Milano.
Ha vinto il Premio Fabbri sezione Arte emergente nel 2018 e nel 2017 il secondo premio Talent Video Awards, Careof, Mibact.
Dario Moalli è nato a Vigevano nel 1991. Si è specializzato in Storia e Critica dell’Arte presso l’Università degli Studi di Milano. Ha lavorato come assistente curatore presso la Collezione Giuseppe Iannaccone. In seguito ha collaborato, assistito e preso parte a progetti editoriali e mostre presso la Triennale di Milano, Palazzo Reale di Milano e Pirelli HangarBicocca. Attualmente è curatore interno di State Of – Milano.
Piergiorgio Caserini è editor per Zero e ricercatore indipendente. Ha scritto per alfabeta2, Operaviva, roots§routes, i suoi racconti sono comparsi su Il Rifugio dell’Ircocervo e TINA, Storie della Grande Estinzione. Collabora con la rivista Millepiani, con Milieu Edizioni e Eterotopia France, per cui ha curato Écologie et libertê. Du mouvement vert à la guerre en Bosnie.
SINOSSI DEL LAVORO: 2017, Full HD video colour, 5.1 sound stereo , 8‘06’’
Un viaggio voyeuristico attraverso posti sconosciuti e memorie familiari. Fatto di immagini digitali, oggetti quotidiani e souvenirs, sfugge nell’apparente annullamento delle distanze geografiche ed esistenziali, nei processi di accelerazione sociale e nello sviluppo tecnologico. L’opera si compone di video e foto trovate su piattaforme di condivisione e social network, che, insieme a immagini storiche d’archivio presenti su internet, creano lo sfondo della narrazione. Le immagini, sia amatoriali che ufficiali, sono ri-filmate dallo schermo, spazio dove sembrano catturate. Creano un paesaggio discontinuo fatto di rimandi visivi e concettuali che declinano il tema del viaggio (fisico e virtuale) in molteplici sensi.
Si crea dunque un dialogo con i souvenirs in primo piano. Scrivendo sulla superficie degli oggetti, emergono domande sulla creazione dell’alterità, sulle eredità del colonialismo, il ruolo delle immagini nelle narrazioni culturali, sull’esotismo intrinseco nell’idea di viaggio e di turismo di massa: l’identità e il luogo come dubbio.
Federico Palumbo
La prima volta che ho visto l’opera di Luca Staccioli mi è sembrato di piombare in un sonno profondo, e di iniziare a sognare. La complessità dei sogni solitamente non mi permette, al risveglio, di riuscire a restituire il filo logico, la narrazione, gli avvenimenti, i protagonisti, etc., che invece si sono manifestati qualche ora prima durante la narrazione onirica. Il provare a ridare voce a quelle sensazioni che nel sogno si diffondono come lampi risulta praticamente – sempre! – impossibile.
L’opera di Luca Staccioli si muove su binari simili: come in un sogno si è irreversibilmente affascinati da ciò che si sta osservando (e vivendo) in prima persona ma, allo stesso tempo, ci si sente spettatori passivi di un racconto che procede senza preoccupazioni di ordine generale. O di alcun tipo. Siamo spaesati all’interno del nostro stesso corpo, spettatori e narratori che confondono i ruoli e precipitano nell’oblio dei sensi e dei significati, che allo stesso tempo possono palesarsi come significanti. Insomma, il tranello è giunto all’apice e noi ci siamo cascati in pieno. Restituire ciò che si vede tramite l’ausilio di parole logico-critiche mi risulta sempre difficile; proprio come accade per i sogni. Quella fascinazione verso un qualcosa simile all’ignoto mi fa rendere conto della potenza del suo lavoro: l’artista è capace – appunto – di restituire quel mondo (post)storico nel quale tutti noi viviamo e che difficilmente riusciamo a comprendere integralmente.
Ecco perché si può tranquillamente parlare di un lavoro dalle forti connotazioni politiche, che non risparmia la crudezza, l’erotismo e, ad ogni modo, rimane filtrato da un linguaggio accattivante, immaginifico e ricercato… in una sola parola: iconico. Anzi, meglio quest’altro termine: souvenir. Altro elemento prediletto dall’artista, che sempre emerge e in grado di sbilanciarsi, a suo piacimento, verso il corpo o verso l’oggetto; ora sradicamento/ora impersonificazione.
La complessità che restituisce e rende manifesta non ingarbuglia e non va ad appesantire una fluidità dei linguaggi e dei contenuti — altra caratteristica imprescindibile dell’opera. Tale grado complesso è, a mio parere, figlio di quella stessa complessità contemporanea della quale spesso si parla. E It Was Me? Screen memories (2017) risponde a tali logiche.
L’immagine della forbice sempre aperta è ciò che forse più si avvicina all’opera di Staccioli, amplificandone la potenza e la bellezza; la perdizione e la stagnazione. E noi, durante lo spettacolo, nei panni dello spettatore e dell’attore – e quindi fra le lame di questa forbice – non possiamo che rimanere affascinati e un po’ impauriti da questa duplice complessità di ruoli che si erge a pericolo e a stimolo continuo… continuamente e nel medesimo istante. Il presentismo, che è conseguenza (o principio) di quest’epoca post-storica, è altro flash intermittente che acceca e mostra; che rincuora e raffredda.
L’unica consapevolezza di fondo ben precisa (e propositiva) che rimane è la seguente: le domande scaturite dalla vista dell’opera devono essere in grado di farci vivere in maniera più etica. Sempre evitando però quel carattere di presunzione che provocherebbe l’effetto contrario. La complessità bisogna osservarla, e non per forza comprenderla; ma domarla e abbracciarla. Solo così, sembra dirci Staccioli, in ultima istanza, possiamo puntare a una libertà individuale che, al contrario, si dimostra ormai logora e feticista.
CONTRIBUTO #I
di Piergiorgio Caserini
È l’epoca della stanchezza, della società senza dolore, della rivoluzione senza corpi: una civiltà della metempsicosi che si proietta là dove il mondo sembra alleggerirsi, tanto che il corpo, non fosse per la morte o la malattia, passerebbe totalmente in secondo piano. Si è sollevati dalla fatica, dalla morte, dallo sguardo sul corpo dell’altro. Si sa, l’immagine è una questione complessa: linguaggio, memoria, scoperta, proiezione, magia. Oggi è anche una questione di distanziamento, del venir meno delle affezioni taglienti. L’immagine è sempre un distacco tra me e un altro, è per certi versi un’invenzione e una riproduzione, eppure è anche lì che avvengono gli incontri. Stando fermi a guardare. Ci sono certamente forme di pensiero nomadi che non hanno bisogno di spostarsi fisicamente. Si può pensare stando fermi, e intraprendere comunque un’avventura. Ma c’è pur sempre bisogno di amici al proprio fianco, altrimenti non si va da nessuna parte. Il problema è che stare fermi è una condizione d’eccezione. Se in un certo senso al movimento incessante non si sfugge, questa società della prestazione, iperproduttiva, ipermoderna, capace di smuovere – accelerando – anche l’immobile, lascia poco spazio, poco margine di sé: è difficile riconoscersi quando subentra un certo automatismo a governare la vita. Ci si proietta sul mondo e nel mondo, ma questo restituisce troppo spesso immagini normalizzate, immiserite. Lo specchio è opaco, saturo di temi quali la prestazione, il lavoro, la sopravvivenza, nella cornice delle aspettative degli edifici del capitalismo.
Luca vuole trovare quella che chiama un’ecologia della visione. Un riprendere e praticare in positivo i rapporti tra immagini, e allo stesso tempo riconoscere il detrimento di alcuni di questi. Oggi le immagini costituiscono un ambiente sempre prossimo, sempre presente. C’è un automatismo che spinge verso una coazione a guardare e che determina con forza alcuni posizionamenti individuali e collettivi. Con Was it me? (2017) Luca ha cominciato a occuparsi di questi spazi, dei movimenti continui, delle loro composizioni, temi che tornano con una certa prepotenza anche nei lavori successivi. Da Donner à voir (2018-19) a Familiar pics (2020-ongoing).
In questi quattro anni di lavoro, c’è una trama comune che li accompagna tutti: la necessità, cara all’ecologia – al soggetto dell’ecologia –, di superare le distanze nel senso di provare a non considerarle. Quello che succede qui succede là, e qui e là non esistono più: si rivalutano i confini tra il dentro e il fuori. È una comunione di luoghi in uno spazio, in un’immagine o un individuo: è il desiderio che gli eventi accadano sempre nei paraggi, che ogni paesaggio, ogni souvenir, ogni delitto o ogni scopata – seppur a schermo, in questo caso – lasci sempre delle tracce, producano sempre delle intensità che scuotano eventuali osservatori.
Così, le comunioni con l’osservato, le coincidenze tra interno ed esterno, tra soggetto e immagine, non devono rispondere a nessuna logica di gusto. Non c’è preferenza, ma incontro. Al limite incidenti/accidenti. Sono affezioni disparate, è quel che passa al convento: gioia, letizia, tristezza, nostalgia. Chi guarda assiduamente è continuamente spezzato da ciò che gli si pone davanti. L’essenziale è forse la parzialità del soggetto che s’incontra con la parzialità dei territori, il loro essere composti e assieme disparati, irriconducibili a qualche algoritmo preferenziale. È un osservatore che si fa guardando, cercando ciò che manca, ciò che viene incontro, ciò che stupisce o ciò che ferisce. Nei ricordi, nelle immagini, nella calligrafia guidata da una voce sottile. È strano pensare come in fondo la conoscenza non sia altro che ricordi, memoria. Che tutto quel che si sa è un già detto, che quel che si scopre è sempre ricordato da qualche parte o da qualcun altro. Che a volte le cose si sanno da sempre ma si fatica a ricordarsele. Soprattutto quando in un POV come Was it me? l’osservatore è sempre un altro, gli occhi sono sempre di qualcun altro ma a guardare è un io, o al limite un tu. Un tu che risiede nello sguardo, e che è per certi versi quel tu montaliano dell’io rimbaudiano, del “io è un altro”.
CONTRIBUTO #II
di Dario Moalli
Was it me? Screen memories (2017) è un’opera dalle forti connotazione politiche. A partire dall’audio che riproduce i suoni dell’ansia, della nevrosi tossica del neurocapitalismo: ogni sfumatura di notifiche, tastiere premute vorticosamente, vibrazioni incalzanti, rumori contestuali e fuori contesto. Noi individui viventi nell’era splendente del neoliberismo siamo talmente assoggettati a questi suoni che la forza bio-educativa che sprigionano su di noi mette subito in azione meccanismi tensivi nella psiche e nei corpi. E così questo velo sonoro che pare quasi lieve contorce, modifica e plasma la nostra percezione delle immagini che si susseguono durante la visione dell’opera.
Queste lavorano su un altro livello anch’esso altrettanto politicizzato. Nel video una sfilza di corpi senza identità scorrono davanti ai nostri occhi. La loro identità è stata plasmata, modellata e violentata prima dalle invasioni coloniali, poi dall’importazione del progresso, con un filo rosso razzista sempre presente. Nonostante questo la loro dimensione esotica, sexotica, etnica è estremamente ricercata. L’autenticità è pretesa, dovuta, necessaria.
Nel corso del video in primo piano si susseguono una serie di biglietti, cartoline, oggetti che parlano, raccontano mentre senza soluzione di continuità si susseguono una serie di immagini e stralci di video plasmati, glitchati che paiono ricordi confusi di un A.I. obsoleta o di un backup di una memoria umana di cui si sono persi diversi centinaia di migliaia di bit.
Was it me? Screen memories è un ritratto pluridimensionale dei processi in atto nel nostro presente, della loro capacità di pervadere ogni anfratto della nostra vita e del globo. L’opera è un continuo disvelamento della violenza del neo-liberismo di modificare i nostri corpi e le nostre menti per renderci sempre più individui soli, isolati e quindi più fragili. Ma il video mette in mostra anche e sopratutto diversi livelli, diversi luoghi e diverse soggetività rendendo così esplicito come la pervasività del sistema sia talmente oleosa da non escludere nulla, anzi. Di essere ancora più violenta e subdola laddove è permesso e quindi necessario.